Il Dopo di noi è un pensiero angosciante per tanti genitori. Dal 2016 c'è una legge e ci sono risorse, ma ancora in tanti territori di fa fatica a spenderli. Come mai? Prima tappa del viaggio di VITA attraverso i progetti nati dalla legge 112/2016. Giovanni Merlo, direttore della Lega per i diritti delle persone con disabilitàl-Ledha sa il punto sulla questione lombarda.: «La legge aveva bisogno di un tempo di maturazione e di un processo costruito dal basso: questo ha portato ad uno sviluppo a macchia di leopardo»
La legge sul Dopo di noi inizia a dare i suoi frutti. I semi sono stati piantati anni fa (sono i fondi stanziati dalla normativa e assegnati alla regione) e iniziano a germogliare, sotto forma di progetti e di risposte.
Prende il via il nostro viaggio attraverso l’Italia del Dopo di noi: ci fermeremo in alcuni territori, per interpellare amministrazioni pubbliche ed enti del Terzo settore e provare con loro a raccontare in che misura e in che modo i fondi siano stati spesi. O non spesi.
Iniziamo dalla Lombardia, una regione che – come vedremo – sta cercando di interpretare sempre meglio lo spirito della legge e i suoi strumenti. Eppure, anche nel caso di questa regione virtuosa, non mancano i nodi critici.
È quanto ci racconta Giovanni Merlo, direttore della Lega per i diritti delle persone con disabilità-Ledha, voce autorevole nel campo della disabilità e osservatore particolarmente attento alla costruzione e agli sviluppi dei progetti di vita adulta come un diritto delle persone con disabilità, oltre che come un’opportunità.
In attesa dei dati regionali sullo sviluppo delle coabitazioni, sulle complessive risorse impegnate e sui residui ancora non spesi (che VITA ha chiesto, ma non sono ancora disponibili), Merlo non ha dubbi: «La legge aveva bisogno di un tempo di maturazione e di un processo costruito dal basso: questo ha portato ad uno sviluppo a macchia di leopardo». Non solo nel Paese, ma anche all’interno della stessa regione.
Il lavoro immaginato, richiesto e previsto dalla legge 112/2016 richiede tempo e pazienza. «La sola velocità di spesa è una lente non adeguata per valutare la bontà della legge 112 e dei suoi modelli applicativi. È un po’ come aspettarsi di raccogliere le nocciole un anno dopo aver seminato la pianta. Con la legge 112 ci si aspettava di raccogliere i frutti dopo un anno, ma questo è impossibile», dice.
Merlo individua due fasi nella vita della legge 112. «La prima va dal 2016 al 2021. La prima delibera regionale arriva nel luglio 2017. Tra il 2018 e il 2019 vengono inserite nel programma sostanzialmente solo le esperienze di coabitazione che erano partite già prima del 2016 ed alcune attività di accompagnamento all’autonomia». Dopo questo primo “rodaggio”, «quando erano pronte a partire anche nuove progettualità, è arrivato il Covid». E la legge, come il mondo intero, si è fermata.
La seconda fase, che va dal 2022 al 2024, segna invece un cambio di passo, testimoniato da numeri rilevanti: «Sono state avviate oltre 200 case in cui vivono insieme circa 700 persone. È il frutto di un lavoro importante, avviato inizialmente in alcune zone che poi si è via via allargato ad un numero sempre maggiore di territori».
Grazie a questi numeri, per Merlo finalmente «possiamo seriamente parlare di avvio della legge 112. Questa fase di decollo della co-abitazione rappresenta il frutto di un nuovo welfare, costruito dalle persone, dalle organizzazioni e dalle istituzioni, che va oltre, e quindi mette in discussione, gli attuali modelli di offerta concepiti con una dinamica molto prestazionale».
Le tre velocità
«Proprio ora, però, comprensibilmente emergono nuove difficoltà», riferisce ancora Merlo. «Le istituzioni devono governare un fenomeno innovativo che ha diverse velocità di attuazione e comprende territori non ancora partiti, altri territori appena avviati ed altri ancora molto più avanti».
Gran parte di queste differenze sono dovute al «diverso grado di relazione, collaborazione e integrazione del sistema di welfare sociale territoriale, che comprende le istituzioni, le associazioni, le cooperative ed ovviamente le persone con disabilità ed i loro familiari. In alcuni ambiti è possibile ipotizzare che le co-abitazioni siano nate per promuovere percorsi alternativi chiesti dalle persone e dalle famiglie e in altri anche per rispondere alla carenza di risposte dei servizi residenziali per la disabilità, ormai saturi. In alcuni contesti, le risorse sono tutte spese e non bastano a rispondere alla domanda, mentre in altri si fatica ancora a utilizzarle».
Palestre e coabitazioni
C’è poi un altro cambiamento importante, che è avvenuto nel passaggio dalla prima alla seconda fase dell’applicazione della legge: il modo in cui vengono spesi i soldi. «La Legge 112 si articola in due grandi categorie: percorsi di accompagnamento all’autonomia (chiamate “palestre”) e coabitazioni vere e proprie», ricorda Merlo. All’inizio, molti fondi sono stati utilizzati per le palestre, che raramente portavano a una vita indipendente. Ora le percentuali stanno cambiando. In alcuni territori, il 70% delle risorse va alle coabitazioni.
Resta il nodo dei costi. In Lombardia, nell’ambito dell’attuale programmazione della legge 112, «la quota per una coabitazione stabile non supera i 15mila euro l’anno», mentre in realtà i costi reali dei progetti di vita sono molto più alti e in alcuni casi possono superare i 50mila euro. Il resto delle risorse vengono messe dai Comuni, dalle persone stesse e dai loro familiari». Ma la quota di contributo della Legge 112 rappresenta ormai un Leps di prima attuazione e deve quindi necessariamente crescere.
Nonostante le difficoltà, tuttavia, si può dire che in Lombardia «queste esperienze non possono più essere considerate eccezionali, ma sono diventate un elemento strutturale del nostro sistema di welfare sociale», afferma Merlo. E aggiunge: «Un fenomeno che deve essere sempre più sostenuto: anche se ad oggi le risorse disponibili non sono state tutte spese, dobbiamo essere consapevoli che i progetti di vita e le co-abitazioni hanno bisogno di maggiori risorse».
Oggi in Lombardia «usufruiscono stabilmente delle risorse generate dalla legge 112 circa 2mila persone e al tempo stesso cresce il numero di chi non frequenta più palestre o attività propedeutiche, ma va a vivere in una casa diversa da quella di origine (come detto, sono circa 700 le persone che usufruiscono delle risorse della 112 per questo), che diventano quasi mille se si considerano anche altre misure», riferisce Merlo. Che precisa: «Queste esperienze, diversamente da quanto si pensi, coinvolgono anche chi ha bisogni di sostegno molto elevati».
Ora, non resta che attendere i dati ufficiali e completi, per avere una fotografia più accurata della situazione in Lombardia e far emergere criticità e soprattutto reali bisogni. Le risorse stanziate sono sufficienti, o ne servirebbero di più? I progetti a cui danno vita sono coerenti con la ratio della legge e il suo principale obiettivo, che è quello di assicurare alle persone con disabilità un futuro, quando i genitori non potranno più farsi carico di loro?

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