«Il più grande atto d’amore che possono fare le famiglie verso un figlio con disabilità – scrive tra l’altro Maurizio Cocchi, riflettendo sulla tragica vicenda che ha visto in Sicilia una donna uccidere la figlia con disabilità e poi togliersi la vita – è quello di insegnargli a rendersi autonomo, preparando il terreno per la sua uscita di casa, proprio per la consapevolezza che per lui sarà più difficile raggiungere questo obiettivo»
Leggo da «la Repubblica» online: «…la signora, 78 anni, aveva un pensiero fisso: sua figlia disabile, che di anni ne aveva 47. Venerdì sera, l’ha vestita come se dovesse uscire per una festa, anche lei si è preparata, e poi ha messo in atto il gesto estremo che probabilmente meditava da qualche tempo, dopo la morte del marito. La madre ha strangolato la figlia con la cordicella di una tenda, al piano terra della casa in cui abitavano alla periferia di Corleone. Poi, è salita al primo piano e con un’altra cordicella al collo si è lasciata cadere nella tromba delle scale».
La comunità circostante non era indifferente ai problemi delle due donne, ecco il sindaco di Corleone, dove si è consumata la tragedia: «Il Comune era naturalmente a conoscenza della situazione – dice il sindaco di Corleone Walter Rà – i servizi sociali avevano contattato i familiari della signora Lucia, mettendosi a disposizione. C’era comunque una famiglia che si prendeva cura della donna e della figlia disabile. Per quello che mi risulta, ogni giorno i parenti andavano a trovare le due donne».
Ora, francamente, sembra impossibile che nessuno si sia domandato cosa facesse una donna con disabilità di 47 anni ancora in famiglia. Al contrario, tutti consideriamo normale che la disabilità sia da gestire in casa, dalla famiglia, dalla madre. A un certo punto scopriamo che questa madre, una delle tante “eroine per forza” della nostra epoca, non ce l’ha più fatta e ha finito con lo scegliere la cosa più ovvia e normale che potesse pensare.
Sindaco, assistenti sociali, parenti, amici, vicini di casa in questo momento sono sicuramente sommersi da autentici e sentiti sensi di colpa. Potevamo fare di più, avremmo dovuto starle più vicino, magari se quella sera avessimo portato loro qualche dolcetto non sarebbe successa questa tragedia…
Nessuno, però, che riesca a pensare che si doveva fare molto tempo prima quello che si fa per ogni bambina e per ogni ragazza: cominciare assieme a lei a strutturare un progetto di vita che la portasse a costruirsi una propria esistenza con un nucleo familiare adeguato e rispondente all’età e al suo funzionamento fisico e mentale.
E non venite a dire ora che è impossibile fare un progetto di vita “con una pazza”, che ha un funzionamento mentale tutto suo, non inquadrabile nei nostri schemi e nella routine sociale cui siamo abituati e a cui siamo così attaccati. Non venite neanche a dire come si fa a costruire un progetto di vita per una persona fuori dai nostri schemi e che magari non capisce neanche bene quello che gli viene detto. Non chiedetemelo, perché io non lo so. Ma se l’avessi conosciuta, meglio ancora se a 18 o 20 anni, ma anche adesso, ci avrei provato.
Forse qualcuno ci ha anche provato, ma si è trovato di fronte il muro della famiglia, dei parenti e soprattutto della madre, che nelle proposte eventualmente fatte di allontanare Giuseppina, ha visto solo un percorso di allontanamento e segregazione, perché sono queste le alternative alla famiglia che nella maggior parte dei casi vengono proposte.
Già, la prospettiva non è una felice inclusione sociale, è il forzato allontanamento, la reclusione in strutture piccole o grandi che siano, dove la persona con disabilità non conta niente e la famiglia non è un soggetto che partecipa alla gestione, ma è un fastidio che fa lavorare di più gli operatori e stressa l’organizzazione.
E allora, la soluzione migliore è che il peso della persona con disabilità, perché di un peso si tratta, resti in famiglia, finché si può. Poi c’è l’RSA, che è sempre pronta, lì ben organizzata con immobili finanziati dalla fondazione del territorio, i suoi protocolli e le sue certificazioni di qualità.
Ma la famiglia, la madre, deve essere aiutata, occorre sostenere i caregiver, con un contributo, con una parvenza di stipendio, l’importante è che la persona con disabilità stia a casa con i genitori e non rompa le scatole fino al momento dell’RSA!
Faccia attenzione il Legislatore a non fare del caregiver l’unico puntello della vita indipendente, perché in tal modo, non solo tradirebbe lo spirito e la lettera della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ma soprattutto tradirebbe le persone con disabilità, oltre a perdere un’occasione di crescita della nostra civiltà.
La disabilità è un problema sociale, che può diventare un’occasione di democratizzazione e accoglienza delle diversità, con conseguente accrescimento della resilienza di tutti. E quel presidente di una grande organizzazione della disabilità non vada in TV a dire che «noi abbiamo fatto questo e abbiamo fatto quest’altro». Inviti piuttosto gli associati, le persone con disabilità e le loro famiglie, i cittadini tutti, all’impegno sociale e civile, perché le leggi ci sono, dobbiamo solo attuarle, renderle vive, farle entrare nella carne e nelle ossa dei nostri amministratori e dei tecnici dei servizi sociali e di tutti quelli delle amministrazioni.
Quando si fa un piano regolatore, si progetta una casa o la si ristruttura, si organizza un cantiere o si sposta un semplice sasso, si dovrà avere in mente che esistono le persone con disabilità. Si deve sapere che esistono le persone con disabilità quando si fa un programma scolastico, un progetto didattico, una metodologia educativa, l’arredamento di una scuola, di una casa, di un luogo pubblico, di una piazza, di un giardino.
Le famiglie normalmente amano i loro figli con disabilità, alle volte persino troppo, al punto da trascurare gli altri figli. Ebbene, bisogna insegnare loro che il più grande atto d’amore che possono fare verso quel figlio è quello di insegnargli a rendersi autonomo, preparando il terreno per la sua uscita di casa, proprio per la consapevolezza che per lui sarà più difficile raggiungere questo obiettivo.
*Consulente di impresa per il Terzo Settore, persona con disabilità.
Alla stessa vicenda cui fa riferimento Maurizio Cocchi, abbiamo dedicato nei giorni scorsi sulle nostre pagine i testi: Fondamentale un progetto di vita che garantisca un futuro a una persona con disabilità di Vincenzo Falabella (a questo link); Omicidi-suicidi: quelle solite narrazioni di Simona Lancioni (a questo link).

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