Disabili o disabilitati? Il modello sociale è un atto politico

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«L’intento di questo libro è presentare un orizzonte di ricerca in pieno sviluppo a livello globale, il suo oggetto è il non conforme». Enrico Valtellina, studioso di disability studies e di critical autism studies, apre così il volumeSulla disabilitazione (Utet), che ha curato. Una raccolta di saggi che rappresenta lo stato dell’arte della ricerca sulla disabilità in Italia e che crea una rete tra accademici, ricercatori e attivisti su questo tema.

Valtellina, nell’introduzione del libro dichiara di utilizzare il termine “non conformità”, piuttosto che disabilità. Come mai?

Non ho molta affinità con le guerre che si giocano sui termini, ma credo che in questo caso abbia il suo senso. Disabilità – col suo prefisso “dis” – è una parola che pone su un piano di inferiorità. “Conforme”, invece, che richiama la parola “conformismo” ha un significato negativo: mi sembrava potesse bilanciare il discorso.

Al libro hanno collaborato tantissime persone.

Questo è un elemento che mi piace molto. Il libro raccoglie i contributi delle persone che avevano qualcosa da dire sul tema dei disability studies, che ho incontrato negli ultimi 25 anni. Sono quasi tutti coloro che si occupano di questo tema in Italia. Gli autori possono essere raccolti in tre tipologie. Il primo gruppo è quello dei docenti universitari; il secondo quello dei giovani ricercatori molto brillanti. Quando io ho cominciato, in Italia non c’era nessuno che si occupasse di disability studies. Adesso molti dottorandi hanno fatto percorsi in questo senso, chi in antropologia della disabilità, per esempio, chi in sociologia della disabilità…La terza categoria di persone che hanno partecipato al libro è quella degli attivisti. In particolare, mi piace ricordare Elisa Costantino, che ha un impairment molto impegnativo ed è una delle persone più intelligenti che abbia incontrato nella mia vita, è molto brillante. Le persone che ho coinvolto sanno tutte scrivere, ognuno con uno stile differente ma ciascuno con qualcosa da dire sul tema che gli ho proposto

Insomma, hanno collaborato tante persone, con background eterogenei.

L’idea di base era raccogliere in una rete tutte le persone che si occupano di disability studies in Italia, secondo uno spettro tematico che coinvolge diverse discipline: tecnologia, sociologia, antropologia, per esempio. Ogni intervento è un tassello di un puzzle; credo che il libro sia attualmente lo stato dell’arte del discorso italiano sui disability studies.

È importante che ci sia anche la voce di chi è, in prima persona, in una situazione di non conformità?

È fondamentale. Negli ultimi anni, con l’avvento di internet, tutta una serie di persone che erano relegate in ambiti di vita ristretti – non potendosi muovere – hanno avuto la possibilità di comunicare, di coltivare collettivamente un discorso emancipativo. È accaduto a livello globale, ma anche in Italia. Se ci si pensa, quando ho cominciato a occuparmi di questi temi, nel 2000, era impensabile che ci fosse qualcosa come il disability pride, che adesso tocca diverse città: prima Palermo, poi Taranto, Milano, Torino Bologna. Coinvolgere l’attivismo ha permesso di assecondare una delle intenzioni primarie dei Disability studies, restituire la parola alla soggettività collettiva di riferimento.

Fondamentale, nel libro, è anche il modello sociale della disabilità. In cosa consiste?

Si tratta di un modello creato a metà degli anni ‘70 da autori con disabilità fisca, come Vic Finkelstein che era un esule sudafricano trockista; c’era una legge che proibiva di essere comunisti in Sud Africa durante il periodo dell’Apartheid. Lui era sulla sedia a rotelle, è stato torturato, costretto all’esilio. Tra l’altro era un bianco, i cui genitori erano emigrati dell’Est Europa a causa di persecuzioni razziali, per cui era molto sensibile alle rivendicazioni della popolazione nera. Poi il modello sociale si è diffuso soprattutto su coordinate sociologiche. Nel 2023 ho tradotto per Ombre corte – dopo averlo proposto per 15 anni a tutti gli editori – The politics of disablement, le Politiche della disabilitazione, di Michael Oliver, una summa di questo pensiero.

Si tratta di un modello diffuso da tempo, quindi.

Siamo arrivati 32 anni in ritardo, ma il libro è comunque più giovane di molto di quanto si scrive sulla disabilità. La cosa interessante è che quando ho iniziato, più di 20 anni fa, mi sono entusiasmato per il modello sociale; ne parlavo con persone di altissimo livello che in Italia si occupavano di disabilità e tutti mi dicevano che era stato superato dal modello biopsicosociale. Invece, negli ultimi anni è diventato lo sfondo teorico condiviso dei Critical Disability Studies, in ragione della sua forte connotazione politica. Distingue impairment – la condizione in cui una persona si trova – e disability, ovvero tutto quello che una società abilista preclude alle persone con impairment. Una minima torsione semantica riconfigura completamente il discorso.La società, infatti, è strutturata per persone conformi; chi non è conforme una minoranza oppressa. È una visione che si pone come proposta affermativa dell’istanza della soggettività collettiva disabile.

Quindi la disabilità non è un problema individuale?

Michael Oliver dice che il modello medico vede la disabilità come una tragedia personale, perché mette in conto ciò che viene negato a livello sociale alla persona che si trova a vivere una condizione specifica. «Il problema è tuo, noi ti aiutiamo a livello medico», si dice essenzialmente. Il modello sociale, invece, mette in luce tutta quella che è la dimensione culturale e collettiva della disabilità, che è vista come relazione di oppressione sociale delle persone non conformi. Per esempio, se ti muovi con la sedia a rotelle non puoi entrare a teatro perché non è stata messa una rampa: sei pertanto disabilitato nel tuo diritto di fruizione di un bene sociale.

Nella terza parte del libro si parla di intersezionalità. Cosa si intende?

Intersezionalità è un termine che negli ultimi anni è stato introdotto nei cultural studies per superare il minority model, quello secondo il quale, per esempio, neri, gay, donne negli Stati Uniti affermavano le loro istanze separatamente. Poi le donne afroamericane disabili – per dire – si sono accorte che si trovavano a vivere più condizioni contemporaneamente e tutto sommato vincolare l’affermatività soltanto a una di queste avrebbe tolto attenzione alle altre. Così si è passati al modello intersezionale. Già Oliver, per esempio, diceva che la condizione disabile non è mai soltanto tale, ma tante volte è collegata alla povertà, alle etnie differenti, alle sessualità differenti e così via. Intersezionalità, oggi, è uno dei termini ricorrenti nelle scienze sociali.

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