«Quando si confondono malattia e disabilità, cura e inclusione – scrivono dall’Associazione Attiva-Mente -, si rischia di fare arretrare di decenni la cultura dei diritti, rafforzando lo stereotipo che “disabilità è uguale a malattia”, dimenticando che la disabilità è soprattutto una questione di diritti, inclusione e giustizia sociale e, soprattutto, annacquando le specificità delle lotte delle persone con disabilità, che non cercano terapie, ma autonomia, autodeterminazione, vita indipendente»
Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ormai ci ha abituato alle sue clamorose boutade sulle tematiche dei diritti sociali e civili, compresa la disabilità. Le sue ultime parole, con cui ha accostato l’autismo a presunte cause mediche e a ipotetici trattamenti farmacologici, hanno sconcertato molti. Dal nostro punto di vista, però, più che scandalizzare dovrebbero far riflettere un pochino più approfonditamente. Ridurre infatti l’autismo a una malattia da “prevenire” o da “curare” significa ignorare che si tratta di una condizione neurologica, non di una patologia. E questa confusione tra malattia e disabilità, tra cura e inclusione, rischia di fare arretrare di decenni la cultura dei diritti.
Quelle affermazioni dell’attuale inquilino della Casa Bianca, oltre ad alimentare insicurezze nelle famiglie, mostrano con chiarezza quanto sia facile e pericoloso confondere concetti che andrebbero invece tenuti ben distinti e pertanto ci sollecitano ad intervenire pubblicamente perché nella società, nel linguaggio comune e persino nelle Istituzioni, come si è visto, persiste un equivoco che fa danni enormi: confondere malattia e disabilità. Sono due realtà diverse, che possono incontrarsi, ma non dovrebbero mai essere sovrapposte.
La malattia appartiene al campo medico: si diagnostica, si cura, si monitora. È un fatto clinico che riguarda la salute della persona. La disabilità, invece, appartiene al campo sociale e dei diritti: non si “cura”, perché non è una patologia. È una condizione di vita che nasce dall’interazione tra una caratteristica individuale e un ambiente pieno di barriere.
La maggior parte delle persone con disabilità non sono malate. Una persona cieca o sorda non ha bisogno di medicine. Una persona nello spettro autistico non è “malata di autismo” e non deve guarire da nulla. Una persona con sindrome di Down non “soffre di Down”: semplicemente, ha una condizione genetica che fa parte della sua identità.
Allo stesso tempo, non tutte le persone con una malattia sono persone con disabilità: un diabetico che gestisce bene la propria terapia o una persona in cura per una malattia temporanea non può essere considerata disabile.
Ci sono patologie croniche e degenerative come il Parkinson, la sclerosi multipla, il diabete o la fibromialgia, che nel tempo possono portare a disabilità, ma non è questa la regola. E soprattutto, anche in quei casi, è la società che decide quanto quella condizione diventi una barriera: l’assenza di cure adeguate, di politiche inclusive e di supporti sociali trasforma la malattia in esclusione.
Per questo motivo, non distinguere o ignorare questi aspetti, anche all’interno di una rete di Associazioni, può essere molto problematico. Si rischia infatti di rafforzare lo stereotipo che “disabilità è uguale a malattia”, di spostare il dibattito sul piano sanitario, dimenticando che la disabilità è soprattutto una questione di diritti, inclusione e giustizia sociale e, soprattutto, di annacquare le specificità delle lotte delle persone con disabilità, che non cercano terapie, ma autonomia, autodeterminazione, vita indipendente.
Le Associazioni di malati hanno obiettivi fondamentali: ricerca, accesso alle cure, riconoscimento delle patologie, supporto sanitario ed economico. Le Associazioni di persone con disabilità hanno obiettivi altrettanto fondamentali, ma diversi: eliminare barriere, garantire pari opportunità, affermare il diritto a una vita piena, indipendente e autodeterminata.
Sono battaglie nobili entrambe, ma se fuse in un unico fronte, rischiano di alimentare proprio quella confusione che da decenni cerchiamo di superare. La chiarezza dei ruoli e delle identità è essenziale: unire tutto indistintamente finisce col rafforzare il pregiudizio che “i disabili siano malati da curare” anziché cittadini da includere.
La distinzione è riconosciuta anche a livello internazionale: la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, infatti, afferma che la disabilità non è una malattia, ma il risultato dell’interazione tra persone con limitazioni e barriere che ne ostacolano la piena partecipazione. È il cosiddetto “modello sociale della disabilità”, che invita a spostare lo sguardo dalla “cura dell’individuo” al cambiamento dell’ambiente, delle politiche e delle culture.
A questo punto, dunque, la vera sfida è non confondere, ciò che vale per tutti. Collaborare su obiettivi comuni sì, ma senza annullare le differenze né appiattire identità che hanno radici, storie e rivendicazioni specifiche.
Solo così, evitando commistioni fuorvianti che penalizzano gli sforzi per l’affermazione concreta della Vita Indipendente, si potrà davvero avanzare verso una società che riconosca la malattia come fatto sanitario e la disabilità come questione di diritti e di giustizia sociale.
*Attiva-Mente è un’Associazione della Repubblica di San Marino impegnata nel settore della disabilità.