L’articolo di Roberto Franchini, Progettare la vita…indipendente? recentemente pubblicato su LombardiaSociale.it ha aperto alcuni spunti di analisi attorno ai neonati Centri per la Vita Indipendente (d’ora in avanti CVI); evidenzia alcune contraddizioni che certamente vanno assolte e discusse, e in merito alle quali in questo contributo proverò anche io presentare il mio punto di vista. Dai primi mesi di lavoro dei CVI, mi pare di intravedere anche altri filoni di riflessione che andrebbero affiancati a quelli proposti. Scopo certamente è quello di fare in modo che l’opportunità offerta da questa normativa possa essere colta pienamente e sviluppata.
E’ evidente che nessun servizio nasce dentro una piena simmetria con i bisogni che individua, e che di conseguenza è necessario costruire connessioni fra i punti di riferimento della normativa e la realtà.
Da una parte c’è certamente il tema che riguarda la natura e la missione dei CVI: “progetti di vita autonoma o progetti di vita tout-court?” si chiede giustamente Roberto Franchini nel suo contributo. Tornerò su questo aspetto ritenendo che attualmente questa scissione non è possibile. Dall’altra invece vorrei proporre alcune riflessioni che si situano a fianco a quella individuata, ponendo l’attenzione su quattro punti:
- sul contesto culturale complessivo espresso degli eventuali richiedenti, soprattutto se famigliari, o coloro che svolgono la protezione giuridica;
- sul ruolo proattivo dei CVI;
- sulla natura di “centri” costruiti a “canne d’organo”;
- sull’ambito specifico di operatività, provando a immaginare che i CVI lavorino con i “contesti” – ridefinendo il ruolo dell’operatore come costruttore di progettualità, in grado di evidenziare risorse relazionali altre rispetto a quelle dei servizi o dell’operatore.
Il contesto culturale dei richiedenti
Le mie affermazioni partono da un particolare posizionamento fuori dai contesti cittadini, oltre che dall’aver svolto per decenni il ruolo di coordinatore di servizi per le persone con disabilità. Dalla loro nascita attraverso la DGR 984/23, svolgo la funzione di operatore in un CVI del quale il mio ente è partner nell’ambito n.2 di Brescia Ovest: si tratta di un contesto di 100mila abitanti in cui si evidenza una presenza numerica importante di persone con disabilità.
La percezione che emerge come maggioritaria in un contesto come quello in cui opero è relativa ad una distonia culturale significativa fra l’offerta dei CVI e il pensiero maggioritario in molti contesti famigliari. Non dico purtroppo per le persone con disabilità, perché in questo caso il gap è ancora maggiore, in quanto esse sono tendenzialmente interpretate e non coinvolte.
Certo campagne di informazione, momenti di incontro possono contribuire a ridurre quel divario, anche se ritengo che non si tratti tanto e solo di questo. La questione non è informativa, ma formativa e prevede lo stare dentro a processi di lungo periodo. L’eventuale riduzione di questa distanza deve avere riscontri concreti, passando dalla quotidianità per affermare una nuova prospettiva culturale.
Oggi c’è un’altra prospettiva tendenzialmente egemonica: per diversi anni le famiglie (non tanto dunque le persone con disabilità, mai coinvolte direttamente) si sono avvicinate ai servizi, sono state ingaggiate in forza della risposta ai bisogni (alcune volte espressi in modo emergenziale), oppure perché gli stessi bisogni potevano essere accolti attraverso sostegni di carattere economico (Misura B1, B2 ad esempio). Ora perché dovrebbero presentarsi al cospetto di un servizio che non capiscono cosa può offrire loro e che esula da questo processo binario a cui sono stati allevati da decenni? Se non entriamo in questa prospettiva non riusciremo nemmeno a rispondere al resto.
Il ruolo proattivo dei CVI
Se la questione si pone in questa prospettiva è necessario che i CVI provino a partire da una rilevazione anche numerica del contesto in cui operano, svolgendo una sorta di lettura in grado di far comprendere quali sono le emergenze, oppure le priorità dentro quei territori. In base a queste, il CVI può orientare la propria azione in termini proattivi, in collaborazione con gli operatori delle ASST e dei comuni dell’ambito.
Non sfugga il fatto che le ore disponibili per svolgere una progettualità, sia che riguardi la vita indipendente oppure orientata sui progetti di vita, si infrange contro il limite delle risorse messe a disposizione dai finanziamenti regionali. Così il rischio è quello di trovarsi da una parte nella circostanza di essere tangenziali alla realtà, e dall’altra di sprecare risorse in un front-office vuoto, non avendo poi le risorse per accogliere progettualità necessarie. Solo un certosino lavoro territoriale eseguito in prima parte sui numeri, in base a fasce di età differenti, può portare ad incontrare il contesto.
Nel contesto dell’ambito n.2 di Brescia Ovest, ad esempio, abbiamo in effetti notato evidenze numeriche significative che esprimono priorità, necessità evidenti e che forse vanno prese in considerazione prima di altre. In particolare, ad es. le persone con disabilità nate fra gli anni 2000 e 2009 da una parte hanno un basso accesso alle Unità di Offerta della rete dei servizi per la disabilità; dall’altra, la stessa popolazione può essere interessata da processi di presa in carico che vanno a costituire un cambio di paradigma, reso più possibile da amministratori di sostegno o famigliari più giovani che non vedono nel servizio un terminale a cui fare riferimento.
Ciò non vuol dire che il front-office sia chiuso o interdetto, ma che esso va sostenuto nel contesto di un’informazione piena nei confronti del territorio.
I CVI “a canne d’organo”
Poiché siamo in una situazione di gestazione dei CVI e di posizionamento nei territori, è importantissimo che si possano attivare processi di reticolarità estesa attivando connessioni durature, permanenti e progettuali. In sostanza creare una comunità di pratica open source che sia in grado di fare leva sulla collaborazione e la cooperazione degli operatori e che possa rappresentare un valore aggiunto significativo per assolvere alle contraddizioni e ai problemi, insieme illuminando gli aspetti più costruttivi.
Questo modo di procedere è importante per una serie di ragioni:
- per condividere buone prassi, processi di lavoro, esiti, ma anche frustrazioni, tentativi che non hanno raggiunto l’obiettivo;
- per mettere in comunità domande, tentativi di risoluzione, strumenti di lavoro in ottica di generazione condivisa;
- perché le persone con disabilità possono accedere a CVI non necessariamente del loro territorio e trovarsi a cooperare anche su questa presa in carico;
- per lavorare in modo congiunto anche sul tema dei consulenti (alla pari, altri specialisti, architetti, ingegneri) che possano essere utilizzati in modo congiunto.
Quello che apprende uno può divenire materia per tutti, in buona sostanza, costituendo un grande valore aggiunto. Non “canne d’organo” ma soggetti messi in rete fra di loro.
La missione dei CVI
Se la condizione di disabilità è data da un intrecciarsi complesso di fattori soggettivi, in relazionale ai contesti, come ci ricorda la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, proprio in questo spazio di contatto, di relazione il CVI trova la sua missione. Non una presa in carico esclusivamente specialistica, ma che dialoga apertamente con i contesti sociali e territoriali affinché si possano costruire legami, relazioni che possano sostenere un ragionamento riguardo l’indipendenza della persona con disabilità.
Quindi il luogo per eccellenza dei CVI sta nell’essere un connettore di relazioni, risorse, competenze al fine di generare una vita interdipendente, attraverso un approccio progettuale e permanente, che non è solo propedeutico all’aggiudicarsi di un bando, piuttosto che ad aspetti congiunturali.
Pensare ai servizi in rete, dovrebbe essere una prospettiva da ritenere utile anche in vista di una revisione dei servizi per le persone con disabilità come è auspicato dalla legge regionale 25/22[1], e dal disallineamento che si è generato con il decreto legislativo 62/24.
Disallineamento che è molto evidente per i servizi sociosanitari per quanto riguarda i requisiti di appropriatezza, dominati da una visione erogativa di carattere ospedaliero[2] e che stabiliscono la presa in carico in termini riabilitativi laddove il decreto legislativo ci pone nella condizione di ripartire invece dalla relazione innescata dall’ascolto, la comprensione dei desideri, aspettative e scelte della persona con disabilità.
Partendo da queste prospettive penso che non sia attualmente così centrale la questione di chiarire l’identità dei CVI, rispetto alle funzioni.
Questa ridefinizione arriverà con naturalezza, nel dispiegarsi dei processi futuri.
Non possiamo far finta di registrare la difficoltà dei comuni, anche quelli più piccoli, che si ritrovano una richiesta di realizzazione di progetto di vita.
Se da una parte la certezza della risposta della pubblica amministrazione, lato comuni o della loro aggregazione di zona, deve essere evasa in 120 giorni, (andando oltre, l’art. 14 della legge 328/00), dall’altra crea un qual senso di ansia prestativa.
In diversi contesti questa time line rischia di spostare l’attenzione sulla forma più che sulla sostanza.
E la sostanza sta nella generazione di un documento, il progetto di vita, che sebbene abbia tracce di carattere amministrativo, deve essere maggiormente inteso come strumento che si rivolge alla vita delle persone al fine di migliorarne l’esistenza attuale soprattutto futura, uscendo dall’indeterminatezza dei sostegni riguardanti la vita indipendente.
In questo senso non per sostituirsi, ma giustamente come indica la normativa, per sostenere anche in termini consulenziali, di sostegno professionale, il ruolo dei CVI sarà decisivo, soprattutto all’inizio.
Il maggiore rischio per i CVI, a mio modo di vedere, per altro sostenuti economicamente solo per un biennio, è di non riuscire a “saldarsi” con la realtà. Insomma, di non riuscire a diventare uno strumento propedeutico alla piena affermazione dei diritti che soggiacciono al decreto legislativo 62/24.
[1] Per approfondimenti si segnalano alcuni contributi pubblicati su LombardiaSociale.it:
Plebani R. e Rigamonti R., Voglio una vita … di quelle fatte così, 29 maggio 2023
Campese M.G. e Fazio S., Vita indipendente: prospettive e sfide per servizi e istituzioni, 12 marzo 2024
Morelli R., Una persona è una persona tramite altre persone, 23 aprile 2024
[2] Il tema della sanitarizzazione nei servizi per la disabilità è stato approfondito con diversi contributi da LombardiaSociale.it. Si segnalano alcuni articoli pubblicati:
Merlo G., La complicata vita delle unità di offerta per le persone con disabilità, 3 maggio 2017
Malè M., Servizi per la disabilità: sanitarizzazione o eterno ritorno della burocrazia?, 27 novembre 2017
Magani F., Vivere in “ospedale” fa bene alla salute?, 22 gennaio 2018