Dalla carità al potere: la rivoluzione del welfare per la disabilità e il ruolo della filantropia

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Mentre il sistema di welfare si apre a un paradigma fondato sui diritti e sulla personalizzazione, la filantropia può farsi leva di cambiamento strutturale, promuovendo una società più aperta, egualitaria e inclusiva, dove le persone con disabilità possano esprimersi e realizzarsi pienamente.

Il dibattito sul welfare delle persone con disabilità in Italia sta vivendo un momento di rinnovato dibattito. Innescato dal Decreto Legislativo 62/2024 e dalla Legge Delega 227/2021, al centro della discussione c’è un profondo ripensamento dei sistemi di welfare della disabilità che, prima ancora che sul livello amministrativo, ha l’occasione di agire come riforma culturale e politica: si mira infatti – nelle intenzioni del legislatore – a superare un approccio improntato all’assistenzialismo, alla standardizzazione dei servizi e alla marginalizzazione delle persone con disabilità.

In occasione del convegno Su base di uguaglianza, tenutosi il 10 e l’11 giugno a Torino (di cui abbiamo parlato qui, ndr), ho raccontato la storia di Roberto Tarditi e Pietro De Filippi.

Nei primi anni ’80 dello scorso secolo, Tarditi e De Filippi hanno ottenuto di poter costruire un proprio progetto di vita indipendente al di fuori delle mura del Cottolengo di Torino, dove erano ricoverati dalla nascita. La loro è una storia di riappropriazione della soggettività e del controllo sulla propria esistenza, di lotta per l’affermazione del diritto di scegliere e delle alleanze che ne hanno reso possibile il successo.

È raccontata nel volume Anni senza vita al Cottolengo – il racconto e le proposte di due ex-ricoverati (Rosenberg&Sellier, 2000), uscito a nome delle assistenti sociali Emilia De Rienzo e Claudia De Figueiredo che ne avevano curato l’edizione1.

Un modello caritativo e custodiale

La storia di Roberto Tarditi e Piero De Filippi è particolarmente potente per comprendere tanto la portata della differenza tra istituti assistenziali custodiali e sistemi di sostegno capacitanti quanto il processo storico di messa in discussione dell’atteggiamento filantropico caritatevole. In consonanza con la stagione culturale che avrebbe portato alla chiusura dei manicomi emergeva infatti una nuova sensibilità – quella dei diritti – con la contestuale spinta, nell’Italia di allora, a servizi orientati alla domiciliarità, la vita indipendente, la comunità.

Roberto e Piero descrivono la loro vita come un “ripetersi di giorni sempre uguali”, come fossero meri “oggetti assistiti”, impossibilitati all’espressione di desideri propri e scelte autonome. Le parole stesse del canonico Giuseppe Cottolengo, che nel 1833 chiedeva il riconoscimento legale del suo istituto di carità per ricoverare “persone povere che altrimenti potrebbero essere colla loro infelicità il disturbo della pubblica pace ed il peccato in seno ai suoi sudditi“, rivelavano, ai loro occhi, la cornice culturale in virtù della quale l’istituzione filantropica non solo offriva assistenza ai ‘minorati’ ma anche proteggeva la società dalla loro in qualche modo disturbante diversità.

Questo modello caritativo e custodiale, dominante fino al XX secolo, incorniciava la persona in una condizione antropologica di minorazione e incapacità.

Verso la capacitazione e l’autodeterminazione

In questo solco culturale capacitante e di superamento della segregazione si sarebbe sviluppato il mondo della cooperazione e dei servizi il quale, dopo decenni di esperienze seminali – ma purtroppo marginali – di progettazione personalizzata e vita indipendente, oggi si trova di fronte ad una rinnovata spinta verso un nuovo passaggio epocale da forme di aiuto basate su un’asimmetria di potere a forme di capacitazione e restituzione di potere.

Il D.Lgs. 62/2024, in linea con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) del 2006, punta infatti a una radicale trasformazione del welfare della disabilità. La direzione è chiara: costruire un sistema che sostenga percorsi di vita personalizzati su base comunitaria, promuovendo metodologie capacitanti e restituendo potere decisionale alle persone con disabilità. Ciò implica anche un ripensamento della filiera degli accreditamenti per la gestione sussidiaria dei servizi e un’accelerazione dei processi di deistituzionalizzazione, come indicato dalle direttive internazionali e dalla Strategia Europea 2021-2030.

Il Convegno Internazionale “Su base di uguaglianza”, organizzato dalla Fondazione Time2 e dall’Università degli Studi di Torino, ha avuto proprio l’obiettivo di descrivere e definire il perimetro di questa visione dal punto di vista giuridico, culturale e pedagogico.

L’autodeterminazione, come sottolineato da Alice Sodi durante il Convegno, non significa “fare da sé“, ma “operare scelte per sé e per il proprio benessere senza condizionamenti esterni“, potendo contare su una rete di relazioni significative e sostegni personalizzati. Questo paradigma riconosce a ciascuna persona il diritto – incomprimibile, come segnalato durante il convegno da Daniele Piccione, sul piano del rispetto del mandato costituzionale – di scegliere, superando le soluzioni preconfezionate e i percorsi obbligati. Con questo obiettivo la riforma, attualmente in fase di sperimentazione e con estensione a tutto il territorio nazionale a partire dal 2027, innova il sistema di valutazione e punta, per esempio, a un’unità di valutazione multidimensionale che accompagni la persona in modo personalizzato, flessibile e dinamico.

Il cambiamento necessario: nel Pubblico e nel Terzo Settore

Non vogliamo qui negare o sottovalutare la complessità e per certi versi l’enormità del cambiamento necessario affinché tale orientamento si attui nei meccanismi amministrativi quotidiani. Ma è banale ricordare che l’organizzazione dei servizi alle persone non è affatto neutrale, in termini etici e giuridici.

Da un punto di vista culturale, questo cambiamento investe non solo il settore pubblico e gli enti preposti all’integrazione sociosanitaria, ma anche il Terzo Settore, che gestisce gran parte dei servizi rivolti alle persone con disabilità. Qui, operatori e organizzazioni iniziano a denunciare una dissonanza valoriale tra la prospettiva dei diritti e la pratica quotidiana dei servizi. Nonostante i progressi, molte persone con disabilità non sono ancora messe nelle condizioni operative per vivere pienamente la propria vita a partire dalle proprie aspettative, con il risultato di trovarsi troppo spesso segregate nelle proprie case per assenza di sostegni adeguati e rivolti alla costruzione di progetti di vita indipendente. La pandemia di Covid-19, in tal senso, ha agito come un “ingranditore ottico”, rendendo evidenti le vulnerabilità del sistema assistenziale basato sulle istituzioni e spingendo verso la de-istituzionalizzazione, la domiciliarità e, appunto, il progetto personalizzato.

In questo scenario, anche la filantropia è chiamata in causa. Storicamente, il suo ruolo è stato ambivalente: pur avendo offerto aiuto, ha spesso perpetuato dinamiche di marginalizzazione e asimmetria di potere. Molto spesso, infatti, i progetti filantropici non hanno risposto, e ancora non rispondono, ad una reale capacitazione delle persone con disabilità, in piena attuazione della Convenzione ONU.

Eppure, la filantropia sta vivendo una profonda trasformazione. Il dibattito attuale la spinge a superare il modello tradizionale paternalista, che vede la relazione donatore-beneficiario come asimmetrica e sbilanciata, per adottare un approccio collaborativo e paritario. Questo nuovo paradigma è orientato alla trasformatività, è capacitante e trust-based. Il periodo pandemico, anche qui, ha agito da catalizzatore, spingendo le fondazioni verso una maggiore flessibilità finanziaria e una più forte propensione all’ascolto, supportando le organizzazioni non profit con finanziamenti pluriennali non vincolati (unrestricted funding e multi-year support), nello spirito di promuovere una filantropia orientata all’empowerment delle persone e delle comunità.

Una filantropia orientata ai diritti umani

In questo senso, una filantropia coerente con i diritti umani e la CRPD può e deve agire in modo realmente trasformativo e orientato al cambiamento sistemico. Il cambiamento sistemico implica affrontare le cause profonde anziché i sintomi, modificando strutture, abitudini, mentalità, dinamiche di potere e regole, attraverso la collaborazione tra diversi attori, con l’obiettivo di ottenere un miglioramento duraturo. La filantropia, come parte integrante del Terzo Settore e al fianco di tutti gli attori che quotidianamente sostengono le persone con disabilità, può sostenere un’operazione di advocacy rivolta all’innovazione radicale delle pratiche e del welfare approfittando del momento storico di temperie sui temi dei diritti delle persone con disabilità inaugurato dalla legge di delegazione.

Questo si traduce in un impegno a:

  • Supportare l’agency e l’autodeterminazione, finanziando programmi che promuovano la capacità di auto-rappresentazione e autodeterminazione delle persone con disabilità, aumentando il loro controllo sulle proprie scelte;
  • Favorire l’accesso strutturale, supportando azioni che modifichino il sistema e rimuovano le barriere, promuovendo la progettazione universale negli spazi civici, sportivi e culturali: gli operatori devono diventare “trasformatori della e nella città”;
  • Contribuire al cambiamento culturale, sostenendo iniziative che promuovano una visione della disabilità basata sul riconoscimento della diversità come espressione della natura umana, e non come una condizione individuale, ma come il risultato dell’interazione – a volte fatale – tra le caratteristiche della persona e i fattori di contesto;
  • Affrontare l’intersezionalità, diffondendo programmi che considerino i rischi di discriminazione multipla legati a genere, orientamento sessuale, appartenenza culturale, capitale sociale-culturale- economico – e altri fattori che si sovrappongono alla disabilità;
  • Lavorare con le comunità, collaborando con istituzioni pubbliche, organizzazioni della società civile e attivisti per accelerare nuove reti e un modello di welfare orientato alla personalizzazione su base comunitaria;
  • Innovare gli strumenti metodologici ed epistemologici, sviluppando nuove competenze professionali che integrino alle discipline mediche e psicologiche saperi pedagogici, sociologici, antropologici e filosofici utili a sostenere le decisioni e la consapevolezza delle persone e lavorare all’accessibilità dei contesti e valorizzazione delle reti comunitarie.

La testimonianza di Roberto e Piero ci mostra la straordinaria caparbietà con cui i diritti umani abbattono i muri. Il compito di una filantropia orientata ai diritti umani, oggi, è di favorire questo cambiamento, un rovesciamento pratico (nelle parole di Franco Basaglia) nella vita delle persone.

Ci aspetta molto da fare sul piano culturale del riconoscimento della persona come soggetto di diritti, e non come mero oggetto di assistenza, e della costruzione di modelli nuovi di servizi territoriali basati sulla partecipazione e sul consenso comunitario. L’obiettivo è che la filantropia possa dare un contributo decisivo ad una società più aperta, egualitaria e inclusiva, dove le persone con disabilità possano esprimersi e realizzarsi pienamente.

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