Partecipazione è una parola un po’ magica per il lavoro sociale, nel senso che è una di quelle parole in cui tutti si riconoscono: quando nella descrizione di servizi, interventi, strumenti, processi di progettazione di vario livello (anche di politiche) si aggiunge l’elemento della partecipazione sembra che al contenuto principale si aggiunga l’ingrediente segreto da cui ci si aspetta un risultato automaticamente buono. Ormai è difficile trovare progetti o strumenti di lavoro sociale nei quali non si faccia riferimento ad una logica partecipata e, aggiungo, fortunatamente. La difficoltà con cui forse ci si scontra è che sembra che basti l’intenzione di chi promuove un processo di renderlo partecipato perché questa idea si concretizzi. La narrazione su questo tema, la partecipazione, rimane forse ancora un po’ edulcorata: la partecipazione non è qualcosa che in sé elimina i rischi di conflitto, di confusione, di incoerenza tra le azioni. Anzi, è abbastanza intuitivo realizzare che più si è a partecipare ad un processo, più si alzano le possibilità di non essere d’accordo e di agire in modo scoordinato o contraddittorio. Questo non significa che nel dare impulso ad un processo di progettazione (qualsiasi esso sia, che sia un singolo percorso di aiuto o un progetto rivolto alla collettività) aprire alla partecipazione non sia condivisibile e auspicabile, anzi. L’intenzione non è però sufficiente: è necessario riflettere su cosa significhi, perché la partecipazione sia praticata consapevolmente e attivamente.

Partecipazione ed esclusione nel lavoro sociale

Nella pratica del lavoro sociale, chi partecipa e a che condizioni? Nel momento in cui ci poniamo questa domanda, potremmo trovarci di fronte a risposte che prevedono delle eccezioni: la partecipazione è sempre importante e possibile, a meno che
Nei discorsi degli operatori la partecipazione può essere subordinata ad una condizionalità, ovvero la capacità di compiere scelte ponderate. È possibile, cioè, se tutti hanno lo stesso “livello” di capacità razionale, seppure portino contributi diversi alla riflessione in ragione dei diversi ruoli e interessi che rappresentano nel processo. La presenza di questo presupposto, più o meno inconscio, tra i criteri per la partecipazione ha storicamente sostenuto la marginalizzazione di alcuni gruppi sociali nei processi decisionali, non solo collettivi – quindi su un piano politico – ma anche quelli che riguardano direttamente la loro vita, quindi anche nei processi di aiuto[1]. Le persone accomunate da questa esperienza di esclusione sono oggetto di una discriminazione basata sull’idea che la loro capacità di compiere scelte sensate o di esprimere opinioni sia diminuita in ragione della loro condizione individuale o di una “vulnerabilità” che viene loro attribuita[2]: tra queste, ad esempio, le persone anziane, le persone con disabilità intellettiva, ma anche bambini/e e ragazzi/e minorenni. Fortunatamente, negli ultimi anni si è fatta spazio l’idea che questo non sia legittimo né accettabile: le Convenzioni delle Nazioni Unite dedicate ad alcuni di questi gruppi sociali insistono con forza sul loro diritto di essere ascoltate e di partecipare alle decisioni che riguardano la loro vita.  Anche l’affermazione dei diritti, però, pur se condivisa da molti operatori, non è di per sé sufficiente. La diversità di capacità individuali in termini di comprensione, possibilità di elaborare riflessioni o esprimere la propria volontà è infatti un elemento di realtà. Il diritto stabilisce che questo dato non deve comportare l’esclusione: cosa comporta, quindi, garantirlo per gli operatori sociali?

Imparare dall’esperienza la (non) partecipazione

Tutte le volte che ho occasione di fare formazione o supervisione con operatori che sono impegnati quotidianamente nella relazione con le persone con disabilità, specialmente se intellettiva, arriva un momento in cui qualcuno dice: in linea di principio tutto chiaro e condivisibile, ma come facciamo a co-progettare se le persone non sanno cosa vogliono, non hanno un’opinione o non riescono ad esprimerla? Cosa facciamo a fronte di persone con alti bisogni di sostegno, dalle quali non riusciamo a capire se c’è un’intenzionalità e come farla emergere? La domanda è, ovviamente, legittima e sempre problematica. Non credo di saper dare una risposta certa, anche se in tutte queste occasioni ci ho provato. Penso però a tutti i colloqui in cui io stessa, nei miei anni di lavoro da assistente sociale, ho vissuto l’esperienza disagevole di porre domande a interlocutori che faticavano a rispondere o di non riuscire a trovare un modo di spiegare le cose che consentisse all’altro di capirle. Persone che non comunicano attraverso le parole; che non riescono ad ascoltare, prese nel loro flusso di pensieri e parole o dalle loro ossessioni; che non sono realmente in dialogo con te in quel momento; che si lasciano passivamente guidare nella conversazione dalla ineluttabile necessità di assecondare l’interlocutore per sentirsi adeguati e così, forse, accettati. Rivivo quella sensazione scomoda di inadeguatezza legata ad una dinamica relazionale che in letteratura è chiamata tokenism, partecipazione di facciata[3].

Parto allora da queste esperienze per ragionare su quali sono i comportamenti che conducono a questa situazione e mi rivedo fare alcune cose. Ascolto e annuisco come se avessi capito quel che mi è stato detto anche se non è così o se quel che è stato detto non mi pare coerente con quello di cui stiamo parlando; sorrido comunque, anche se sono a disagio per il comportamento dell’altro o se quello che sto dicendo non è piacevole; in qualche modo, più o meno consapevolmente, conduco l’altro a dire ciò che voglio sentirmi dire o vado alla ricerca di conferme di quello che penso offrendo i miei pensieri e interpretazioni come “scorciatoia” che si sostituisce alla fatica dell’altro di pensare; continuo a parlare solo io o, quando parlano gli altri, sto solo aspettando il mio turno per dire ciò che ho in mente di dire e che non verrà modificato da quanto mi sta dicendo l’altro. Tutte le volte che ho agito così, alla fine della conversazione sono rimasta con la sensazione di non aver capito nulla e con il dubbio che quell’incontro non fosse servito a nessuno, pur avendo fatto quel che dovevo fare come richiesto dal diritto (incontrare direttamente le persone con disabilità e parlare con loro). Ci ho messo tempo – ora mi pare sin troppo – a capire da dove arrivava quel senso di inadeguatezza; devo dire, anche, che a posteriori ritengo mi siano mancati gli strumenti in termini di conoscenze metodologiche e teoriche, per riconoscere cosa stava succedendo. Su queste questioni, che sono essenziali, ho avuto la sensazione di dover “recuperare” in autonomia, nel tempo e dall’esperienza, qualcosa che sarebbe stato fondamentale avere prima.

Ascoltare, prima di tutto, per comprendere

Tutti i comportamenti che ho descritto sono stati agiti con l’intenzione di essere adeguati in una situazione di incontro che mi ha posto davanti all’inaspettato o, semplicemente, a una diversità di pensiero, parola o comportamento verso cui ho cercato di essere, con questi atteggiamenti, rispettosa e accogliente. In realtà, sono risultati profondamente inefficaci in quanto non utili a quello che dovrebbe essere lo scopo primario di ogni ascolto: comprendere[4]. Ci aiutano a tenere un comportamento che ci appare consono e professionale, ma non a capire l’esperienza di vita dell’altro e il suo punto di vita. Rimanere centrati sui nostri contenuti (su quello che abbiamo da comunicare o da chiedere noi operatori); non fare la fatica di porre un’altra domanda per approfondire (tanto non serve); rinunciare ad ammettere che no, non abbiamo capito cosa vuol dire la frase che abbiamo sentito o perché l’altro si comporta in un certo modo, per provare a farcelo spiegare un’altra volta; rassicurare il nostro interlocutore senza poter davvero assicurare nulla, a fronte di continue lamentele o insistenze, senza riuscire a cogliere che dietro queste probabilmente c’è una reale sofferenza, insoddisfazione o preoccupazione per il futuro; adattarsi all’eccesso, cioè non cercare più di condurre il colloquio in una direzione e lasciare che la conversazione si disperda in chiacchiere o contenuti di circostanza. Tutte queste azioni in cui abdichiamo al nostro compito di rendere quell’incontro uno spazio di ascolto utile per noi e per l’altro non ci permettono di rispondere alle domande che, come operatori, dovremmo portarci dentro quando incontriamo qualcuno: come stai nella situazione che stai vivendo? Cosa ti preoccupa? Cosa pensi? Cosa vorresti?

Se vogliamo rendere effettiva la partecipazione, l’ascolto non è fine a sé stesso, è lo strumento principale attraverso il quale far emergere contenuti imprescindibili per intraprendere azioni di aiuto che possano essere efficaci. Imprescindibili, cioè senza i quali non posso procedere; ecco che, da un punto di vista metodologico, la comprensione dei contenuti soggettivi (opinioni, desideri di cambiamento, problemi, bisogni, etc. così come sono percepiti dall’altro) deve essere perseguita dall’operatore nella misura più ampia possibile, anche se la condizione individuale dell’altro richiede tempo e adattamento, per poter praticare un ascolto autentico che permetta di prendere decisioni sensate per tutti[5].

La partecipazione di facciata è un adempimento formale; il presupposto della partecipazione reale è, invece, la convinzione degli operatori che sia necessario comprendere nella misura più ampia possibile cosa è bene per ciascuno per costruire percorsi di senso. Questi contenuti devono poi contribuire a orientare le decisioni che vengono prese: le intenzioni e i pensieri delle persone devono trovare una corrispondenza nella realtà, in ciò che gli operatori attivano o nelle scelte che vengono fatte. Questa corrispondenza può non essere totale; anzi, solitamente non lo è, perché partecipazione è un processo collettivo, nel quale non si sceglie una sola delle parti. Tutti si accordano sul da farsi, superando conflitti e mediando tra volontà diverse, e questo vuol dire, in negativo, che ciascuno può dover lasciare qualcosa, in relazione anche a vincoli, opportunità concrete, disponibilità di risorse e altri fattori che incidono sulle possibilità di azione. In positivo, però, vuol dire che tutti si riconoscono in quel che viene stabilito; che la decisione, cioè, appartiene a tutti e tutti ne sono responsabili in una certa misura.

La partecipazione è per tutti

Questa prospettiva metodologica, unitamente al diritto, ci suggerisce che promuovere la partecipazione non dovrebbe dipendere dall’approccio dei singoli operatori alla pratica o dalle convinzioni di ciascuno: non si tratta di un permesso da dare, ma di smettere di negare alle persone con disabilità ciò che sarebbe loro dovuto, il diritto di avere il controllo sulla propria vita, di immaginarla, di costruirla. Parlare di partecipazione delle persone con disabilità non vuol dire “farle partecipare”: la partecipazione non è una concessione. Le persone con disabilità hanno già titolo di partecipare nei processi di aiuto, sia sotto un profilo normativo che dentro un quadro concettuale e metodologico che attribuisce a questo diritto una sostanza. Questo titolo deve essere loro riconosciuto senza condizionalità e, invece, viene ancora sistematicamente disconosciuto.

L’intenzionalità delle persone con disabilità, specialmente se intellettiva, può essere più facilmente manipolata, ignorata, lasciata inespressa o mistificata attraverso un ascolto formale e superficiale. La partecipazione rimane di facciata. Dovremmo invece provare a comprendere l’altro nella misura più ampia possibile per garantire (e non permettere) la partecipazione. La misura della comprensione inevitabilmente dipende anche dalle caratteristiche dei nostri interlocutori, ma anche dalla nostra capacità di ascoltare: potranno darci punti di vista ampi sul loro percorso di vita; oppure circoscritti, su singoli aspetti della quotidianità. Potranno comunicarceli verbalmente oppure potremo capirli col tempo, imparando a conoscere come comunicano le loro preferenze o i loro stati d’animo, anche attraverso i comportamenti. Potranno aiutarci a conoscere il loro punto di vista le persone che vivono con loro quotidianamente, i familiari, altri operatori, i loro caregivers. Potremo mettere le persone in condizione di dirci qualcosa se forniamo loro i sostegni di cui hanno bisogno per comunicare. Potremo comprendere mettendo insieme tanti elementi, con pazienza, dedicando tempo a costruire una relazione in cui ci si conosca a vicenda e in cui le persone possano prendere parola e sentirsi a loro agio. Potremo farlo solo se non abdichiamo in partenza alla possibilità di capire; se accettiamo le complessità a cui ogni relazione ci mette di fronte; se ci esponiamo alla fatica dell’incontro e della comprensione.

Relazioni autentiche, partecipazione reale

La realizzazione della partecipazione reale richiede che vengano superate ben altre barriere, non solo quelle di comunicazione: gli operatori devono riconoscere e mettere da parte gli atteggiamenti stereotipati caritatevoli, infantilizzanti, iperprotettivi, sostitutivi che derivano dall’abilismo e che sostengono la discriminazione e l’esclusione. Prima di tutto, bisogna allora mettere le persone nella condizione di partecipare, che vuol dire dedicare tempo a costruire una relazione autentica. La percezione di “contare” nei processi decisionali passa dalla possibilità di ciascuno di essere sé stesso, di sentirsi legittimato ad esprimere le proprie opinioni, di sentirsi creduto e rispettato. Questi aspetti relazionali precedono il processo decisionale e incidono sulla possibilità per le persone con disabilità di parteciparvi attivamente. Per costruire le basi della partecipazione possiamo quindi tornare a contare sugli strumenti principali e sulle competenze più raffinate degli operatori sociali, contrastando la tendenza a ridurli a un esercizio di tecnica, a un’azione dovuta o a un passaggio formale: l’ascolto e la relazione di fiducia.

[1] Thompson, N. (2016) Anti-discriminatory practice. Palgrave McMillan; Parker, J. e Crabtree, S. A. (2018) Social Work with disadvantaged and marginalised people. Sage
[2] Op. cit.
[3] Warren, J. (2007) Service User and Carer Participation in Social Work. Sage
[4] Rogers C. (2012) Un modo di essere, Giunti.
[5] Folgheraiter, F. (2011) Fondamenti di metodologia relazionale. Erickson