Paura di una crisi necessaria

I cambiamenti che finalmente si teorizzano, si legiferano e che si iniziano qua e là ad attuare nei cosiddetti servizi per persone con disabilità intellettiva, e che ne prospettano un mutamento radicale nel mandato e nell’azione verso le persone e verso la comunità, trovano non poca resistenza sia a livello di gestione da parte di enti pubblici e privati sia a livello culturale nelle stesse educatrici e negli stessi educatori.

Da una parte, infatti, la questione economica frena, fa paura e non sempre a torto. Sia l’attuazione di progetti di vita reali e, quindi, sostenibili, sia la ristrutturazione organizzativa e metodologica dei servizi, che richiede l’abbandono dei consueti rapporti educatore/utente con un indispensabile aumento del personale, richiedono investimenti economici maggiori ma anche permanenti, per evitare che i percorsi iniziati rimangano in balìa di finanziamenti temporanei, col rischio di chiudersi per tornare indietro, allo stato precedente.
Dall’altra parte però, e qui sta una responsabilità individuale, le difficoltà economiche, i dubbi legati ai finanziamenti, le difficoltà gestionali incontrano una rigidità culturale da scalfire, ma dura a morire e diventano il pretesto per non muovere nulla nemmeno a livello soggettivo, per non affrontare la necessità di mettere in crisi la propria funzione di educatore o educatrice professionale. Ci trinceriamo dietro quello che non si può fare, dietro la ragionevolezza; incarnando quell’accomodamento ragionevole di alcune leggi che mette le mani avanti, che già in partenza va a tarpare l’esigibilità di alcuni diritti, dribblando soluzioni dalla necessaria complessità.

L’ordine delle cose possibili è l’ordine delle cose ragionevoli. È un ordine conservativo. Davanti a te ci sono infinite possibilità meno una, quella di un ordine nuovo, trascendente, ossia quella che mette in discussione l’ordine stabilito.[1]

A cambiare si inizia da noi

Eppure, in Italia abbiamo un esempio straordinario: quando nel 1961 Franco Basaglia entra nel manicomio di Gorizia, non rimane fermo in attesa di soldi; inizia un lavoro culturale, interno ed esterno, per cambiare il modo di guardare la follia, le persone e per iniziare subito a lavorare in modo diverso, con quello che ha trovato, con chi c’era.

E’ un lavoro che inizia all’interno dell’ospedale (…). Nuove regole di comunicazione sono necessarie per migliorare le condizioni di vita nel manicomio e per modificare l’immagine dei vari membri della comunità, stratificatisi in ruoli funzionali all’autoconservazione dell’istituzione. [2]
E noi? Abbiamo bisogno di finanziamenti per iniziare a guardare la persona con disabilità e per pensarci in modo differente? Per iniziare a modificare, per quello che si può, la quotidianità dei servizi, il rapporto con la comunità?

Il contributo recentemente pubblicato su LombardiaSociale.it Vieni a prendere un caffè con noi?, che a partire da alcune esperienze presenti sul territorio di Lecco tratta il tema dei servizi come possibilità per rigenerare il tessuto sociale (e rigenerarsi), mi ha particolarmente colpito e ha sollecitato le riflessioni che di seguito propongo. In particolare, il punto in cui, iniziando a narrare delle esperienze di apertura, di rottura dello schematismo programmatorio dei servizi, gli autori dicono: “Ci aiuta in questo, un approccio diverso da quello professionale”.
Questa frase, che potrebbe passare in sordina rispetto al resto del contenuto, ai miei occhi rappresenta il fulcro della questione. Da molto tempo (lavoro da quasi trent’anni) mi sono reso conto di trovare molta più fecondità di pensiero nella filosofia, nella letteratura e nelle altre arti, più che nei testi di impronta pedagogica o psicologica. Penso a quanto abbiano fatto per il mio lavoro, e non solo, Il mito di Sisifo di Camus, Aurora di Nietzsche, L’istituzione negata di Basaglia o Così è se vi pare di Pirandello; così come taluni film di Bergman (su tutti: Persona del 1966), solo per citare (e sfoggiare) pochissimi esempi. Allora la frase dell’articolo mi ha fatto sobbalzare, in pieno e soddisfatto accordo, e la metto a capo di una riflessione non solo sulla ricerca delle fonti ma anche sul senso e sull’operare del lavoro educativo. Non per auspicare un abbandono della professionalità, per altro già minacciata e sminuita dalle deroghe al possesso del titolo di studio, ma per ricostruirla; per abbattere il consolidato e rifondare un nuovo modo di essere educatori e educatrici in servizi che forse, speriamo, non si chiameranno più così, perché saranno un’altra cosa.[3]

Mettere in crisi le certezze

 Abbandonare quella che fino ad ora è stata ritenuta la professionalità educativa significa affrontare la fatica di concepire il proprio lavoro in modo totalmente differente, magari rinunciando ad alcuni baluardi dell’operare educativo che continuano ad apparire imprescindibili, che ci illudono di lavorare con il soggetto, quando invece rimane un oggetto del nostro intervento:

  1. il concetto di intervento sulla persona. Un costrutto che tende ad eludere il contesto, per chiudere lo sguardo intorno singolo, all’individuo, che diviene portatore unico di atteggiamenti, istanze, discorsi per li più da modificare o magari da assecondare ma sempre col rischio di proiettare su lui o lei un’immagine di persona tutta nostra, soggettiva e sociale; senza aver prima esplicitato cosa si intenda per persona e col rischio costante di applicare inconsapevolmente un approccio correttivo, per un adattamento del singolo alle “normali” esigenze e prassi sociali.
  2. l’approccio di stampo medico, con cui di parla ancora di situazione attuale, obiettivi, strumenti e strategie per raggiungerli[4]. Una ripresa in altri termini della triade diagnosi-terapia-miglioramento, quindi l’affidarsi ad uno schema pseudo-scientifico che sembra darci, ancora una volta, sicurezza nel procedere, partendo da una eccessiva focalizzazione sul comportamento, come fossimo zelanti etologi da campo e impedendo a noi stessi di vedere l’agire dell’altro come espressione di una possibile visione del mondo e non come un fenomeno da spiegare.
  3. I due punti precedenti si legano a quello che spero possa essere l’abbandono del P.E.I. il Progetto Educativo Individualizzato, nonché delle diverse scale di valutazione, strumenti troppo tecnicistici, dalla parvenza scientifica, dall’apparente oggettività, che nascondono senza toglierla la soggettività dell’operatore, permettendoci discrezionalità nel considerare o meno la messa in discussione di quanto scritto e le contraddizioni quotidiane di un’esistenza, che non possono certo emergere da tabelle o da sequenze di risposte a domande già decise e standardizzate.
  4. Infine, e se ne dibatte da anni, lasciarci alle spalle l’organizzazione della giornata dei servizi secondo la scansione nei famigerati laboratori[5], a cui abbiamo educato generazioni di persone con disabilità intellettiva e famiglie, a cui si auto-educano migliaia di educatori ed educatrici; laboratori che oggi hanno il sapore di un impegno del tempo di stampo (falsamente) lavorativo, avendo ormai perso quella che era una possibile e necessaria apertura alla persona nell’epoca di superamento della tragedia manicomiale. Ma una vita, anche solo per otto ore al giorno, non può essere ridotta all’occupazione del tempo, alla necessità di fare quello che fa il gruppo, al dover ruotare, anche se fosse per rifiutarle, intorno alle attività programmate. Oggi lavoro con persone di sessant’anni, che fanno, dopotutto, le stesse cose di quando ne avevano venticinque e sono entrate nel servizio. Basta…

Cambiare sguardo per cambiare ruolo, non lavoro

E allora, sì, andiamo al bar! Il bar reale e il bar come metafora di una rottura con un passato ormai stantio, con ciò che ne può conseguire, come ci racconta l’articolo citato, con il suo richiamo al vivere nel mondo, quello vero e non quello fittizio dei servizi, che non richiede professione ma attenzione e disponibilità ad una convivenza nuova.

Ma a questo punto, la mia laurea, la mia qualifica: professionale, a cosa servono, a cosa valgono? La domanda è (dovrebbe essere) di una certa urgenza, vista la crisi della nostra professione che non sembra ancora vedere una soluzione. Ma la risposta? O almeno una discussione intorno alla domanda? Sembra quasi si faccia finta di niente, anche di fronte alle indicazioni della Legge Regionale 25/2022[6], di cui non si parla e di cui molti e molte non conoscono nemmeno l’esistenza. No, di fronte alle testimonianze e alle istanze di cambiamento: silenzio. Un silenzio rassegnato? Un silenzio timoroso? Può darsi. Ma forse l’educatore che ha timore di quel cambiamento che segnerebbe la sua inutilità, è l’educatore che perpetua acriticamente lo status quo, l’approccio secondo la visione dell’intervento sulla persona; quello che si affida pedissequamente ai metodi, ai sistemi di pensiero dati e già pronti, al linguaggio e alle categorie di certa psicologia classificatoria, a cui ci si appella anche con palese reverenza, se non proprio sudditanza.
E allora sì che il suo timore avrebbe ragion d’essere. Del resto, è indubbio che la vita possa essere accompagnata non solo dalla professione educativa. Tante sono le sfaccettature, le possibilità, i punti di vista.

Dunque, dove trovare la risposta, sempre che ci sia, alla domanda: dove mi colloco in tutto ciò come educatore professionale?

Forse nel passaggio culturale dal Progetto Educativo al Progetto Esistenziale[7]. Un passaggio che richiede una completa revisione del mandato sociale, da sorvegliante a promotore di libertà, da manovale della riabilitazione e dell’adattamento a valorizzatore delle differenze, della relazione, della persona per ciò che è, con la sua umanità e non in quanto caso da prendere in carico.
Lo sguardo sull’individuo, il lavoro sulla persona, si amplia, si sposta e diventa lavoro sulla comunità, con la comunità. E con le famiglie, mentre invece oggi in molti servizi un contatto diretto e continuo con i famigliari è precluso alle educatrici ed agli educatori o si esaurisce nelle formalità di “condivisione del PEI”.

Dobbiamo prendere coscienza delle possibilità e delle responsabilità che abbiamo di agire sulla vita delle persone con disabilità intellettiva, per accompagnare liberando o per contenere standardizzando, in un contesto culturale di parcellizzazione del sapere, delle competenze, degli ambiti di azione professionale, in cui sfugge l’insieme delle conoscenze, i loro limiti, il loro essere parte di un sistema (sempre approssimativo) di indagine dell’umano. Una sorta di “divide et impera” che ci vincola ai limiti delle istituzioni, dove ognuno fa la sua (e solo sua) parte, dove si fa quel che si può perché “nessuno ha la bacchetta magica” e “non ci sono risorse…”. Locuzioni di un linguaggio che educa noi professionisti a perpetuare la chiusura, quando non la vera e propria segregazione[8], a non osare, non incontrare, anche strattonando e disturbando un poco la consolidata quiete sociale.

Siamo noi, professionisti del sociale[9] a vario titolo, a dover andare per primi nel mondo, cambiando modo di pensare e di pensarci, analizzando e monitorando la rappresentazione sociale[10] nostra e delle persone con disabilità intellettiva e se fosse il caso, andando a scalfirne la fissazione in modelli e stereotipi. Ma anche guardando alla nostra visione della disabilità intellettiva come costrutto e al mandato sociale che serviamo, magari senza saperlo.

Credo che tutto questo debba iniziare dalla nostra formazione, continua e non solo universitaria: nella quale la grande assente è la filosofia, intesa come pratica di vita, come abitudine alla problematizzazione, all’analisi, alla discussione, alla continua critica di ciò che c’è, di ciò che facciamo.
Avremo così la possibilità di attuare una professione in movimento, per la quale il cambiamento sarà connaturato, normale e oso dire: necessario.
Una professione che stia nel mondo di tutti e non ne costruisca uno suo oppure manovri perché qualcuno si conformi, si adatti, assomigli a…
Forse…

 


[1] M. Conte (a cura di), 2016, La forma impossibile. Introduzione alla filosofia dell’educazione, Padova, Libreria Universitaria Edizioni, p.33
[2] N. Petrelli, 2008, L’uomo che restituì la parola ai matti. Franco Basaglia. La comunicazione e la fine dei manicomi, Editori riuniti/L’Unità, p. 21
[3] Venerdì 14 febbraio, a Carugate (MI), si è tenuto un convegno dal titolo “Non chiamiamoli servizi”, organizzato dalla Rete Immaginabili Risorse, in cui alcune realtà hanno presentato le loro attività di lavoro con e nella comunità e si è discusso di conversione dei servizi e tra le altre cose, dei limiti e delle necessità della formazione educativa.
[4]  Il tema della sanitarizzazione nei servizi per la disabilità è stato approfondito con diversi contributi da LombardiaSociale.it. Si segnalano i primi due articoli pubblicati che hanno avviato le successive riflessioni:
Merlo G., L’importante è la Salute e non la sanità, 12 aprile 2017
Merlo G., La complicata vita delle unità di offerta per le persone con disabilità, 3 maggio 2017
[5] Si segnalano alcune esperienze realizzate nei territori lombardi in “controtendenza”:
Fondazione Stefania, Servizi per la disabilità. Chi non si rigenera, degenera, 18 novembre 2022
Bollani M., Disabilità: servizi per l’inclusione e la vita indipendente, 5 dicembre 2022
Cesco R., Essere o stare. Il miglior servizio è quello vuoto, 19 dicembre 2022
Gatti A. e Vipadi R., Disabilità. Alla ricerca di nuovi modi di “fare centro”, 16 luglio 2024
Plebani R. e Manzoni E., Vieni a prendere un caffè con noi?, 5 marzo 2025
[6] Per approfondimenti si segnalano alcuni contributi pubblicati su LombardiaSociale.it:
Plebani R., Voglio una vita … di quelle fatte così, 29 maggio 2023
Spazio Aperto Servizi, Vita indipendente: prospettive e sfide per servizi e istituzioni, 12 marzo 2024
[7] Per approfondimenti:
Merlo G., Disabilità: verso un progetto (di vita) per tutti, 21 giugno 2024
Franchini R., Il Progetto di Vita: verso la sperimentazione, 19 giugno 2024
[8] Si veda a tal proposito G. Merlo – C. Tarantino (a cura di), 2018, La segregazione delle persone con disabilità. I manicomi nascosti in Italia, Maggioli Editore.
[9] Per la salutare pratica di non prendersi troppo sul serio, ascoltiamo i brani di Giorgio Gaber, La razza in estinzione, 2001 e Il tutto è falso, 2003. Ma mi permetto anche di segnalare di F. Nietzsche, Genealogia della morale.
[10] Per una feconda riflessione su questo costrutto si può leggere Giuseppe Vadalà, La rappresentazione della disabilità tra conformismo e agire politico, in Roberto Medeghini et al., 2013, Disability Studies, Trento, Edizioni Erickson.