La discriminazione nelle parole di una Sentenza

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Purtroppo nel 2023 accade di trovarsi di fronte a un provvedimento della Corte d’Appello di Torino, in cui non si ritiene sussista il reato di maltrattamento aggravato, già accertato in un primo grado di giudizio, in quanto l’eventuale ingiuriosità delle frasi rivolte ad un ragazzo autistico in classe non avrebbe potuto essere percepita dal ragazzo stesso, non essendo egli in grado di comprenderne il disvalore educativo e giuridico…

Purtroppo nel 2023 accade, dopo 75 anni dall’entrata in vigore della Costituzione e dopo anni di grande attivismo normativo anche a livello internazionale, in cui si sancisce l’ovvio, ossia che tutti hanno pari dignità sociale, accade, si diceva, che ci si trovi di fronte a un provvedimento redatto dalla Corte d’Appello di Torino, in cui “in nome del Popolo Italiano” non si ritiene sussista il reato di maltrattamento aggravato, già accertato in un primo grado di giudizio, in quanto l’eventuale ingiuriosità delle frasi rivolte ad un ragazzo autistico in classe non avrebbe potuto essere percepita dal ragazzo stesso, non essendo egli in grado di comprenderne il disvalore educativo e giuridico… In un attimo un balzo indietro verso la Rupe Tarpea!

Riassumiamo la vicenda: i genitori di un bambino autistico non verbale, alunno della prima classe di una scuola primaria, denunciano per maltrattamenti l’insegnante di sostegno e l’educatrice, ottenendone in primo grado la condanna e una misura cautelare, con il riconoscimento di un atteggiamento vessatorio e aggressivo, che ha compromesso il percorso di sviluppo e le complessive condizioni di salute, accertato che il bambino veniva mandato in bagno senza scarpe, trattenuto in bagno per un periodo sproporzionato, che gli veniva rifiutata la merenda, che era costretto in corridoio a raccogliere il giubbotto caduto in terra nonostante non vi riuscisse, umiliato davanti alla classe rovesciando l’acqua della sua bottiglietta per insegnargli l’importanza del bere, ricevendo di frequente in risposta ai suoi bisogni un secco «ti arrangi!».
Ebbene, l’educatrice ha proposto ricorso in appello con rito abbreviato, ottenendo, come detto, un pronunciamento di assoluzione reso dalla Corte d’Appello di Torino, perché appunto il fatto non sussiste.

Tralasciando ogni dato tecnico della vicenda, che comunque non riguarda un soggetto dichiarato interdetto, leggere le motivazioni del provvedimento fa letteralmente inorridire.
Vi si precisa infatti che «il carico di lavoro della sezione ha reso necessario un maggior termine per la redazione della sentenza»: dunque non si tratta di una svista, il giudicante ha ponderato le frasi scelte e le decisioni assunte.
La Corte è convinta che il malessere del bambino fosse collegato alla frequentazione della scuola, ancorché non necessariamente presupponente l’esistenza di condotte maltrattante ai suoi danni, non preoccupandosi del livello di integrazione a superamento di ogni ritrosia. Considera forse la scuola un luogo per lui non adatto, visto che «lo sfortunato» non è in grado neanche di comprendere se gli si rivolga in maniera ingiuriosa? Non garantisce dunque il suo diritto allo studio, non coglie le prolungate ingiustificate assenze dalla classe. È altresì convinta, la Corte, che non spetti ad essa stabilire se la «metodologia didattica» utilizzata dall’imputata sia stata adeguata a gestire «lo sfortunato disabile» abbandonandolo fuori dall’aula, lasciandolo scalzo.
La Corte non è altresì in grado di valutare, ohibò, se tali comportamenti possano qualificarsi come comportamenti didattici…
E ancora, non riconosce, la Corte, che il compito dell’educatrice fosse appunto di assistenza e di aiuto nell’affrontare la disabilità, non presta attenzione alle dichiarazioni dei testi che riportano comportamenti maltrattanti anche nei confronti di altri minori e un deliberato disinteresse verso i bisogni affettivi ed esistenziali del bambino con disabilità, nonché il mancato assolvimento di una funzione educativa calibrata sulle esigenze di un alunno che non va redarguito perché capriccioso, ma supportato con specifici insegnamenti a sostegno della disabilità. Né è in grado la Corte di stabilire se l’educatrice possedesse le capacità e i titoli per gestire lo «sfortunato» alunno.
Conclusione: l’imputata va assolta poiché non vi è sopraffazione laddove le condotte descritte non manifestano violenza.

A questo punto i coraggiosi genitori del ragazzo sapranno far valere i loro diritti in ogni opportuna sede giurisdizionale nazionale o internazionale, ottenendo una giusta revisione del pronunciamento e un sereno percorso di crescita del ragazzo stesso.
Come Federazione [FISH, N.d.R.] abbiamo avuto un incontro online con la madre, insieme all’ANFFAS (Associazione di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e del Neurosviluppo), rendendoci disponibili a fornire pieno supporto alla sua famiglia, a partire dalla più ampia comunicazione possibile della vicenda. A noi compete infatti di affiancare ogni persona in situazione di fragilità, lottando per un’idea di società equa e inclusiva, umana e accogliente, modellata sul «cosa posso fare per te?», sul «come posso esserti utile?» e non certo sul «ti arrangi», dove non vi siano dubbi sul concetto di didattica, non ci si nasconda dietro alle specifiche competenze, per il riconoscimento del primario valore dell’umanità: la relazione nell’uguaglianza.

Per ulteriori informazioni e approfondimenti, oltreché per disporre del testo della Sentenza di cui si parla nel presente contributo: handylex@fishonlus.it.

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