Una sentenza non fa primavera

Tratto da

Carlo Gilardi è morto il 22 ottobre dopo aver trascorso gli ultimi anni in una Rsa dove era stato ricoverato contro la sua volontà. Un commento sulla vicenda e sulla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo

Il signor Carlo Gilardi è morto il 22 ottobre all’età di 92 anni. Ha vissuto gli ultimi quattro anni della sua vita in una Rsa dove era stato ricoverato contro la sua volontà. Si tratta di una vicenda di cui si sono interessati i mezzi di comunicazione, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e infine anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo. Una sentenza che vale la pena leggere e far conoscere.
 
La ricostruzione della “storia” occupa le prime otto pagine della sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, chiamata ad esprimersi su un caso di cronaca abbastanza noto, ovvero quello del signor Carlo Gilardi, sottoposto a un ricovero coatto in una Residenza sanitaria assistenziale (Rsa). Un breve racconto in 45 punti, di facile lettura che assume l’andamento classico dei racconti e film dell’orrore.
 
Si parte infatti da una situazione di vita ordinaria: quella di un anziano signore benestante che vive una vita semplice, austera e frugale, a cui fa da contraltare la sua disponibilità a intervenire in aiuto di persone in situazione di difficoltà. L’equilibrio si rompe quando questo stile di vita viene segnalato e definito come anomalo e problematico, dando il via a un crescendo di interventi che lo portano, nel finale, a essere internato in una Rsa senza avere la possibilità né di uscire né di ricevere visite o telefonate senza l’autorizzazione dell’Amministratore di sostegno o del Giudice tutelare.
 
Per comprendere in tutti i suoi risvolti questa storia bisogna leggere la sentenza (qui è disponibile la traduzione in italiano) cercando di immedesimarsi nel protagonista e di comprendere le reazioni del signor Gilardi: dapprima incredule, poi stupefatte e infine rabbiose -ma mai violente- al vedere la sua vita stravolta e la sua libertà calpestata, senza che la sua opinione venisse non solo rispettata o presa in considerazione, ma neanche seriamente ascoltata.
Una palese violazione dei suoi diritti umani che, per essere definita tale, non ha potuto contare sulla giustizia italiana, nonostante il clamore mediatico sollevato dalla vicenda e nonostante l’interessamento e i pronunciamenti del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
 
A pronunciare una parola definitiva su questa vicenda è stata la Prima sezione della Corte europea dei diritti dell’Uomo che il 6 luglio 2023 ha affermato che le misure adottate nei confronti del signor Gilardi, non sono state né proporzionate né adattate alla situazione individuale. Vi è stata una grave violazione dell'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, e la discrezionalità dell'autorità ha superato e prevalso sui diritti riconosciuti dall'Unione europea a ogni individuo.
 
La Corte ha condannato nello specifico l’Italia per violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, in cui si afferma che:
  1. "Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza".
  2. "Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui".
Si è messo in moto un meccanismo infernale (non a tutti noto) in base al quale un comportamento in qualche modo “disturbante” o considerato non appropriato, viene definito come problematico -non dal punto di vista morale o sociale, ma da quello psichiatrico e della salute mentale- dà il via a un processo che priva di fatto la persona della sua libertà. La sua capacità di agire viene consegnata alla discrezione, totale, dell’Amministratore di sostegno e del Giudice tutelare.
 
Naturalmente per giungere a questo risultato è anche necessario che anche le altre persone o realtà significative coinvolte (in particolare familiari stretti e operatori) offrano il loro consenso e contributo, attivo o passivo. Una situazione che priva la persona di ogni possibilità di opposizione anche nei casi, come questo, in cui abbia le capacità per farlo: anzi l’espressione del dissenso viene considerata una ulteriore dimostrazione del suo bisogno di supporto e di sostituzione nell’assunzione delle decisioni fondamentali che riguardano la sua vita.
 
Tutto questo in barba all’approccio alla disabilità basato sui diritti umani, a quanto previsto dalle Convenzioni internazionali a difesa dei diritti umani e da quanto stabilito dalla stessa legge italiana che prevede che gli accertamenti e i trattamenti sanitari possano essere solo volontari e che limita ai soli casi eccezionali e per un tempo limitato i trattamenti sanitari obbligatori. La Corte infatti afferma che “negare la capacità giuridica, allo scopo o con l'effetto di pregiudicare il diritto delle persone con disabilità al riconoscimento della loro personalità giuridica in condizioni di uguaglianza, costituisce una violazione degli articoli 5 e 12 della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità” che è stata ratificata dallo Stato italiano con la legge 18/2009.
 
Fin qui il caso del signor Gilardi che purtroppo, nonostante questa sentenza, non è potuto più tornare a vivere a casa sua, passando direttamente dalla Rsa all’hospice dove ha trascorso i suoi ultimi giorni di vita. Una vicenda che non può non muovere altre considerazioni, di carattere generale, che riguardano altre persone con disa­bilità che vivono situazioni simili a quelle vissute dal signor Gilardi senza essere conosciute.
 
Vogliamo ricordare che l’articolo 12 della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità riconosce la capacità giuridica di tutte le persone con disabilità, dando il diritto alla titolarità della propria capacità, sia giuridica che di agire su un piano di parità con gli altri. Pone come fondamentale la scelta della persona interessata, che prevale sulla scelta di chiunque altro, anche se fatta presuntivamente nell'interesse della persona con disabilità. Nel caso in cui la volontà e le preferenze della persona non possano essere conosciute, si può ricorrere alla “migliore interpretazione della volontà e delle preferenze della persona".
 
Ma quando si attraversa il confine, in realtà indefinibile, tra psichiatria e disabilità sembra che le norme a tutela della dignità delle persone, siano ancor maggiormente prive di valore e anzi confinate nel regno dell’ideologia e della pericolosità, nonostante una normativa molto avanzata. La mancanza di alternative è il motore e la giustificazione di uno stato di fatto, per cui sembra normale (cioè naturale e accettabile), che l’inserimento “in struttura” possa avvenire, come spesso capita, senza neanche acquisire il parere della persona interessata o comunque senza tenerne conto, arrogandosi il diritto di sostituirsi a lei.
 
E anche quando le alternative ci sono o iniziano a comparire all’orizzonte, si teorizza che per alcune persone queste non siano perseguibili, oppure che non siano sostenibili dal punto di vista economico, anche quando queste hanno un costi simile o persino inferiore alle rette pagate dagli enti locali per i servizi residenziali.
 
È fondamentale riportare come il Garante nazionale delle persone detenute e la Corte europea per i diritti dell'uomo affermano che un servizio residenziale, per il solo fatto di avere il mandato di doversi occupare di una persona 24 ore al giorno e per 365 giorni all’anno, determina un rischio di segregazione. Si va anche oltre: il solo fatto di non avere un’alternativa, una opzione diversa dall’inserimento in un servizio residenziale, costituisce la prima forma di segregazione. La corte richiama ancora il "divieto assoluto di detenzione fondata sulla disabilità".
 
Occorre quindi che tutti teniamo presente i pronunciamenti dei diversi organismi internazionali (Comitato europeo per la prevenzione della tortura, Comitato delle Nazioni Unite per i diritti delle persone con disabilità, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, Corte europea sui diritti dell’Uomo) che nel giro di breve tempo hanno riconosciuto questi due principi fondamentali che hanno colpito le vicende degli ultimi sei anni di vita del signor Gilardi:
 
  • la necessità che gli Stati siano tenuti a favorire la partecipazione delle persone con disabilità alla vita della comunità e prevenire il loro isolamento o la loro segregazione, riconoscendo loro il diritto fondamentale all’autoderminazione;
  • la necessità di superare definitivamente i modelli di welfare basati sull’istituzionalizzazione.
Non possiamo che augurarci che questi pronunciamenti possano aprire lo spazio per aprire un serio confronto su come procedere in modo efficace ad un serio progetto che punti a garantire a tutte le persone con disabilità il rispetto della loro intrinseca dignità e ad avviare un serio e concreto processo di deistituzionalizzazione.
 
Giovanni Merlo, direttore LEDHA-Lega per i diritti delle persone con disabilità?
Laura Abet, Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi

Altre opinioni