I giovani non vogliono più fare i lavori sociali? Attenzione: non è solo una questione di stipendi.

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Cresce l’emergenza tra gli operatori e gli addetti a vario titolo che operano nel nostro welfare, sempre più interpellati e chiamati in causa da criticità che appaiono irrisolvibili ma che chiedono di essere quotidianamente gestite. 

Al tema ormai ricorrente e quasi cronico delle ripartenze difficili delle scuole per mancanza di insegnanti, in questo settembre 2023, possiamo infatti aggiungere il tema più recente della mancanza di operatori sociali e socio sanitari (educatori e infermieri) nei servizi di welfare ma anche di personale sanitario nei vari presidi ospedalieri.  

E se dal lato scuola gli appelli del Papa e del Presidente della Repubblica ribadiscono la necessità di una scuola che non abdichi al suo ruolo fondamentale di tenere insieme e di far crescere insieme tutti i bambini che la frequentano, confermando l’idea portante di una scuola inclusiva come fattore di coesione sociale, d’altro  canto emerge forte la domanda di cosa stia succedendo in un Paese in cui quasi improvvisamente nessuno vuol più fare l’infermiere o l’operatore socio sanitario o l’educatore ed anche il medico. 

Perché sta succedendo tutto questo? Come uscirne? Se ne parla sui giornali e sui media di queste emergenze. Ma tra i vari addetti ai lavori cosa si dice? Quali sono le posizioni in campo e le possibili via d’uscita?

 Colpa dei datori di lavoro che non hanno saputo investire sulle carriere professionali del welfare? Colpa dei sindacati che non hanno saputo tutelare questi lavori e queste professioni? Colpa degli ordini professionali o dei percorsi formativi universitari e non, che non sono riusciti a promuovere la crescita e l’innovazione delle competenze? Colpa del “sistema” di welfare sanitario sociale e socio-sanitario che non è più in grado di attrarre e destinare le risorse che servono per garantire le cure e la protezione sociale adeguate ed appropriate di cui i cittadini necessitano? 

Personalmente ritengo che non sia solo un problema di risorse. E che non sia più sufficiente ragionare discutere e confrontarsi sul tema delle risorse per il welfare per uscire da queste emergenze. 

Perché il welfare non è soltanto una somma di interventi  disciplinati dalle norme vigenti e regolamentate contrattualmente all’interno di uno dinamica di prestazioni in cambio di corrispettivi. Ma è il frutto di un’idea precisa di società e di come stare insieme e di come vivere insieme. E se questa idea e questo sguardo vitale che vede le persone in relazione tra loro non si alimenta e non viene sostenuto sul piano culturale,  forse si perde anche il senso comune di che cos’è ed a che cosa serve il nostro sistema di welfare. E con esso si perde anche di vista in primis l’idea ed il pensiero di cosa sia ed a cosa serva il lavoro sociale, di cura e di presa in carico e di promozione della salute e del benessere dei cittadini. 

Quindi per affrontare il tema sempre più attuale della mancanza di inseganti, operatori sociali, infermieri ecc. non serve solo una richiesta impellente e urgente di risorse aggiuntive, ma serve anche una riflessione profonda sul senso e le finalità del nostro welfare e delle professioni che lo sostengono e lo tengono in vita. 

E soprattutto serve uno sguardo nuovo rispetto alle organizzazioni, pubbliche e del privato sociale, che oggi costituiscono le fondamenta di un sistema di welfare storico che fatica a rinnovarsi. 

Rispetto alla scuola ad esempio è vero che oggi nel nostro Paese l’inclusione delle persone con disabilità a scuola, nella scuola di tutti, non sempre funziona e non è per nulla un diritto acquisito. È vero che per molte persone in condizione di disabilità  la scuola è ancora in parte o totalmente inaccessibile, può diventare un parcheggio ed anche un semplice adempimento con risvolti più disagevoli che di benessere. Ma quindi?  Le persone con disabilità sono un problema per la scuola o la scuola di oggi è un problema per le persone con disabilità?  È dis-abile lo studente che in classe non funziona  come gli altri o la scuola che funziona solo per alcuni studenti e non per tutti?

Per che cosa,  in che modo, in quale direzione quindi dobbiamo impegnarci  oggi rispetto all inclusione scolastica?  Studiamo come ripensare la didattica, come potenziare i sostegni, come personalizzare i curricula formativi e come migliorare l’organizzazione della scuola di tutti, per farla funzionare per tutti, oppure no?  Riapriamo le scuole solo per i bambini e gli studenti con disabilità e le scuole per i bambini senza disabilità? 

Il problema a mio avviso  non riguarda soltanto la mancanza degli insegnanti di sostegno e degli assistenti alla persona o le barriere architettoniche o dei mezzi di trasporto per andare a scuola. La mia impressione è che manchi anche un’idea di una scuola diversa in cui la diversità è fonte pro-vocatoria per attivare nuovi e innovativi percorsi di conoscenza, apprendimento, istruzione e di stare insieme.

In una scuola in cui l’insegnamento funziona e consiste soprattutto nel riempire di nozioni e informazioni le teste dei bambini come fossero dei vasi e dei contenitori, in cui gli adempimenti burocratici  finiscono spesso per impedire alle organizzazioni scolastiche di agire in modo riflessivo divergente e intelligente modificandosi e trasformandosi insieme all’ambiente in cui operano, il fare scuola degli insegnanti e dei dirigenti e l’imparare e lo stare insieme dei bambini e degli studenti risulta sempre più difficile. Figuriamoci per i bambini e gli studenti con disabilità. Per loro, già oggi, in una scuola così il posto non c’è più. C’è il banco, magari non adattabile, spesso neanche spostabile. Ma il posto no… Nel senso che non può essere un luogo per tutti.

E quindi se la scuola non cambia e se noi cittadini non aiuteremo le istituzioni scolastiche a trasformare ed a cambiare radicalmente la propria impostazione didattica, di funzionamento organizzativo e di insegnamento, arriveremo presto ed in parte siamo già arrivati ad impedire a tantissimi bambini con disabilità di andare a scuola…  nella stessa scuola dove vanno tutti i bambini… E condanneremo la scuola a diventare una scuola dis-abile.  Una scuola che non sarà più per tutti ma solo per alcuni. Non una scuola inclusiva. Al contrario; una scuola davvero “esclusiva”.

Ma lo stesso discorso oggi lo possiamo fare anche per i servizi sociali e socio-sanitari. Per i quali l’emergenza operatori era già presente prima del Covid ma negli ultimi due anni è esplosa esponenzialmente. 

Il welfare ha bisogno di nuovi percorsi e nuovi paradigmi per affrontare la sfida dell’inclusione. Nuovi percorsi e nuove visioni che riabilitino anche il senso del fare l’operatore sociale e socio-sanitario (l’educatore, l’infermiere, l’Oss, l’assistente sociale).

Anche la sfida del Pnrr di ridisegnare il sistema di contrasto alle condizioni di disabilità fondata sulla personalizzazione degli interventi e l’autodeterminazione personale e l’inclusione sociale oggi ha bisogno di essere sostenuta e coltivata da una rinnovata visione e funzione delle professioni sociali e sanitarie impegnate in questa sfida. Alimentando questo percorso di ripensamento anche attraverso le piccole e grandi conquiste sul campo affermatesi nel corso di questi anni di crescente emergenza. 

Penso ad esempio alla sfida intrapresa da Regione Lombardia con la DGR 7429/22. Un intervento a carattere sperimentale previsto nell’ambito dei programmi regionali attuativi “Dopo di noi”, per valutare le condizioni di percorribilità e di sostenibilità della prospettiva della co-abitazione per le persone con disabilità ad altissima intensità di sostegno. A partire dalle persone con autismo di Livello 3. In cui il focus della sperimentazione non è quello di stabilire se anche le persone con disabilità a basso funzionamento possano realizzare un percorso di vita indipendente dai genitori. Ma definire quali siano le condizioni di attuabilità degli obiettivi di vita indipendente, per altro sanciti dalla Legge 112/2016, per tutte le persone con disabilità proprio a partire dalle persone con più alta intensità di sostegno.  

All’interno di questa sfida si cerca di tradurre in pratica la visione della Legge Delega 227/2021 in cui si assume che la costruzione condivisa del progetto personalizzato e partecipato non costituisce un processo sfidante e innovativo solo  sul piano metodologico (con riferimento agli strumenti più idonei da utilizzare), o sul piano organizzativo e istituzionale (con riferimento ai ruoli ed alle funzioni che entrano in gioco in questo processo), ma soprattutto sul piano esistenziale (rispetto alla sfida di accompagnare e sostenere il percorso di vita della persona e dei necessari cambiamenti del suo contesto per garantirle benessere inclusione e senso di appartenenza alla comunità).

Ebbene questa sfida sperimentale è stata costruita per sostenere ed andare incontro ad un’istanza emergente che viene dal basso ed ha interpellato le istituzioni e gli enti di terzo settore ad andare oltre il mandato e l’organizzazione dei servizi istituzionali a sua volta accompagnata da una profonda riflessione sull’idea di cittadinanza delle persone coinvolte. Che non sono solo i figli e i genitori in condizione di disabilità ma anche gli operatori dei servizi pubblici e del privato sociale che li sostengono e li accompagnano a conquistare pezzi sempre più importanti della loro vita.  

Ora, in questo inizio d’autunno 2023, mi piace sottolineare come nell’osservare i primi risultati davvero incoraggianti delle sperimentazioni avviate, emerga con forza il dato della necessità di un’attenta strategia di progettazione personalizzata fondata non solo su adeguati strumenti e metodologie di lavoro, ma anche su una rinnovata visione del lavoro sociale. In cui viene rimessa profondamente in gioco la dinamica tra famiglie servizi e istituzioni che caratterizza il rapporto tra utente, istituzione ed ente erogatore dei servizi. Una visione, frutto di una prassi concretamente esperita che supera la dinamica della contrattazione e dello scambio tra prestazioni e corrispettivi e si caratterizzata per un forte patto di corresponsabilità tra persone famiglie servizi e istituzioni. Che nel suo esistere e concretizzarsi diventa capace di generare nuovi legami fiduciari che alimentano investimenti progressivi sulla prospettiva di adultità e di emancipazione dei figli dai genitori.

Si intravede insomma la possibilità che il lavoro sociale rappresenti la chiave di volta per ri-alimentare un rinnovato patto fiduciario tra persone famiglie servizi e istituzioni che costituisce pre-condizione e requisito essenziale e di base per tenere in piedi e ri-alimentare senso e praticabilità del nostro sistema di welfare. Così come emerge anche l’evidenza di come le più interessanti progettazioni innovative in tal senso siano nate proprio all’interno degli attuali servizi diurni e per la disabilità che tanto spesso vengono rappresentati come luoghi istituzionalizzanti e da superare. Nella realtà, proprio da esperienze di innovazione costruite dai servizi,  sta emergendo la possibilità concreta di trasformare i servizi da luoghi di cura, di sostegno e di presa in carico che accompagnano la costruzione di un percorso di vita, a luoghi di vita che comprendano e sostengano anche percorsi di cura, di sostegno e presa in carico. Secondo il mandato e gli orientamenti culturali e sociali sanciti dalla Convenzione ONU sui diritti per le persone con disabilità.

Per tenere in piedi il nostro sistema di welfare miglioralo e riqualificarlo e per promuoverlo anche come opportunità interessante e intrigante di investimento professionale, occorre promuovere ed affermare anche le sue conquiste sul campo. Conquiste personali, sociali ed esistenziali ma anche organizzative istituzionali e professionali degli operatori sociali. Il cui valore non dipende solo dalla dinamica remunerativa delle prestazioni, ma anche dal suo significato e dalla sua indispensabilità per tenere in vita un’idea di noi stessi e delle nostre comunità in cui sentirci tutti un pochino più a nostro agio. 

 

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