Disabilità, non perdiamo il valore delle emergenze

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di Marco Bollani

Mi fa molto piacere esser stato ingaggiato da VITA per contribuire a questa sua nuova sfida editoriale.  Da oltre 25 anni lavoro e sono impegnato nell’ambito dei servizi e delle politiche per la disabilità e non mi percepisco ancora come un portatore di idee. Lavoro ed ho lavorato per attivare servizi, interventi, sostegni, per mettere in piedi organizzazioni. Dirigo una cooperativa sociale, coordino progetti, sono coinvolto a diversi livelli nella concertazione con le istituzioni locali, regionali e nazionali. E mi sento e mi considero soprattutto un uomo “faber”. Un portatore di azioni più che di idee. Perché non c’è un pensiero che mi riguardi, che non muova da ciò che ho fatto. O da ciò in cui sono stato coinvolto.

Anche perché, confrontarsi con la disabilità ha sempre significato per me, da quando faccio questo lavoro, affrontare soprattutto emergenze. Intese come situazioni impreviste, inattese, da fronteggiare senza una pianificazione preventiva. Ma anche intese come fenomeni emergenti, movimenti che emergono dai problemi, dai disagi, ma anche dai desideri e dalle aspettative di vita delle persone. Che spesso richiedono risposte non presenti e talvolta anche non previste e non prescritte.

Negli anni 90 del secolo scorso, da operatore del servizio civile che non aveva mai avuto niente a che fare con la disabilità, affrontai ad esempio l’emergenza di Matteo. Persona con gravissima disabilità. Troppo “grave” anche per essere inserito al centro diurno perché picchiava e mordeva tutti. Ma troppo grave anche per stare a casa da solo con i genitori, a cui serviva un’aiutante per alzarlo dal letto senza essere investiti dalla sua violenza. La mia prestanza fisica dell’epoca dava probabilmente sufficienti garanzie a chi aveva la responsabilità, anche istituzionale, di confrontarsi con quella emergenza. Ma come si suol dire “pagai subito dazio”. Con un morso di Matteo che riuscì quasi a staccarmi un dito. Ma diventammo amici. E riuscii a farlo uscire di casa. A portarlo in collina con l’auto dei miei genitori. E poi a convincere gli autisti del Comune a farlo risalire di nuovo sul pullmino. E infine anche gli operatori del centro diurno a riprenderlo al centro, seppur con la mia vigilanza costante. E da “vigilante” di Matteo conobbi la realtà dei Cse (Centro socio-educativo) e divenni uno dei “sostegni formali” ma senza titolo, l’obiettore, che poteva dare una mano agli operatori ma anche ad altri genitori. E fui ingaggiato da altre famiglie, come vigilante. Ma poi ingaggiato anche da un’associazione, l’Anffas, per dare una mano ai volontari.

E passando da un’emergenza all’altra, fui preso anche da una cooperativa sociale e fu il mio primo lavoro come operatore sociale. Dovevo affrontare l’emergenza di un centro diurno isolato. Fuori dalla città. Che aveva bisogno di recuperare fiducia da parte dei familiari, delle istituzioni e di integrarsi di più con il “resto del mondo”. Con operatori che si sentivano abbandonati, arrabbiati, in lotta con tutti. E con le istituzioni in difficoltà nella gestione di questo avamposto periferico per l’accoglienza di persone con disabilità. E pagai dazio anche lì. Responsabile di un centro diurno, ex obiettore reclutato dal servizio civile, senza competenze specifiche (stavo studiando Scienze Politiche all’Università di Pavia) e di fronte ad un’emergenza sicuramente più grande di me. E dopo la prima settimana di lavoro dovetti ricorrere alle cure di una psicologa. Ma il centro diurno riuscì piano piano nell’impresa di riagganciarsi con il mondo. E divenne anche una fucina di nuovi progetti di accoglienza e di inclusione sociale, grazie ad un gruppo di educatori e di operatori sociali straordinari, ad un sindaco eccezionale ed a genitori “super” che seppero riconoscere e valorizzare, anche in quell’emergenza, attraverso la loro fiducia, qualcosa di buono. Tanto da convincermi all’epoca, contro la volontà dei miei genitori, che l’operatore sociale potesse diventare il mio lavoro.

Pensando oggi a quel tempo, mancavano tutti i requisiti formali e sostanziali in questi ingaggi avventurosi del sottoscritto. Ed i contesti di intervento descritti pagarono anche lo scotto, insieme al sottoscritto, di infiniti errori metodologici e procedurali, anche se il futuro diede poi ragione a queste “avventure”.

Fortunatamente oggi siamo tutti più consapevoli e preparati a riconoscere la necessità di operare e lavorare con metodo. Di darci delle regole precise. Di operare con la diligenza necessaria in primis per non peggiorare le situazioni che affrontiamo. Prevenendo il rischio di renderle ancora più difficili o ingestibili. E tutto ciò è un bene. Ed è anche il bene, ritengo, di tutto ciò che abbiamo realizzato.

Però, pur a distanza di oltre vent’anni dai miei primi movimenti come operatore sociale, nel confrontarmi anche oggi con la disabilità, pur in presenza di tutto ciò che “il welfare” è stato capace di organizzare prevedere e regolamentare, non posso che constatare da un lato che le emergenze non finiscono mai e dall’altro che esse rappresentano comunque opportunità davvero ricche e promettenti, sia per tenere in vita le organizzazioni sociali, sia per farle crescere e per aiutarle a progettare cambiamento e quindi futuro.

Pensiamo al Covid, emergenza del tutto inattesa. Fenomeno violento e imprevisto che si è abbattuto sulle nostre vite e sulle nostre organizzazioni sociali. Organizzazioni già alle prese con la sfida emergente ma ancora molto “carsica”, di consolidare ed ampliare i nostri interventi. Che ancora oggi non bastano per tutti ma contemporaneamente sono chiamati a rinnovarsi e sono alle prese con la necessità di trasformarsi. Per aggiornare e ripensare il proprio agire, i propri mandati, le proprie regole di funzionamento nell’ottica di migliorare le prospettive di vita delle persone tracciata dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.

Nelle prime settimane dell’emergenza Covid tra febbraio e aprile, saltate tutte le regole e lasciato per necessità tutto lo spazio possibile di movimento alla nostra discrezionalità, mentre tutti chiudevano tutto, molti dei servizi presenti su tutto il territorio nazionale sono riusciti ad inventare nel qui ed ora soluzioni e risposte decisive per tutelare le persone, per evitare di lasciarle sole nelle loro case. Abbiamo occupato altri spazi delle città. Inutilizzati o chiusi per Legge. De-centrato l’accoglienza, improvvisato nuove attività e nuovi modi di stare comunque insieme. Valorizzando gli apporti ed i sostegni di tutti coloro che semplicemente “ci stavano” … Se la sentivano. Risposte e soluzioni che di lì a pochi mesi sono servite e sono riuscite ad assumere la sfida dell’inclusione e del cambiamento, molto di più, e con efficacia ed efficienza davvero maggiore, di molte delle nostre intenzioni e delle azioni che seppur prescritte e pianificate nel tempo, ormai da oltre 10 anni, per cambiare i nostri servizi e i nostri interventi, tardavano e tardano tuttora a concretizzarsi.

L’intrusione negli altri luoghi della comunità e della città è stata possibile perché in questa parentesi di emergenza “valeva tutto”. E finita questa emergenza ci siamo accorti che ciò che avevamo fatto “valeva di più” di quello che stavamo facendo prima, in ossequio alle nostre regole ed alle nostre mappe organizzative e mentali. E da lì abbiamo provato e stiamo provando a rimodulare le regole del gioco per il futuro, per consentirci di ri-progettare un futuro diverso. Per i nostri interventi e per le prospettive di vita delle persone.

 

E su questo sfondo intravedo la possibilità che, insieme alla bontà di un lavoro sociale strutturato, metodologicamente sempre più supportato e ampiamente regolamentato, per assumere la prospettiva di cambiamento tracciata dalla Convenzione Onu occorra anche, e forse in primis, riconoscere e valorizzare molte esperienze sussidiarie nate anche “avventurosamente”, in risposta a situazioni di emergenza. Riconoscendo e valorizzando le modalità generative e le competenze innovative, organizzative e di governance, che esse riflettono. A partire dalla capacità di apprendere dall’esperienza e di gestire e governare azioni trasformative in assenza di riferimenti, anche navigando a vista.

Credo sia urgente e necessario far emergere il valore, l’efficacia e l’efficienza delle scelte di molti servizi pubblici e del privato sociale e di molti operatori che hanno affrontato percorsi di sostegno e di promozione di nuove prospettive di vita, inediti. Percorsi in cui, a fronte dell’emergere di bisogni che cambiano e di nuove aspettative, sono nate proposte a partire soprattutto da una nuova disposizione ad agire rivelatasi decisiva per aprire nuovi percorsi, di vita e di sostegno. In cui il sentiero da percorrere non era tracciato, ma lo si è costruito camminando. Interrogandosi e lasciandosi investire non solo e non tanto dalla domanda “come si fa”, quanto prioritariamente dalla domanda “cosa possiamo fare…”

 

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