Comprendere una volta per tutte che non vi è distinzione tra noi e loro

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«Solo quando riusciamo a trovare un certo equilibrio tra le nostre funzioni – scrive Angelo Fasani, a proposito di un testo di Justin Glyn, contenuto nel libro “A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità” – e a ridimensionare il nostro ego, lasciando spazio ai nostri sentimenti profondi, possiamo vedere chi ci sta di fronte nella sua interezza, potendo coglierne la “multiforme ricchezza umana e spirituale”. Solo allora possiamo comprendere una volta per tutte che le persone con disabilità, insieme a quelle senza disabilità, sono un tutt’uno, senza distinzione fra “noi” e “loro”»

Dopo la mia riflessione dello scorso anno sul libro A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità (La Vita Felice, 2022), curato da Alberto Fontana e Giovanni Merlo, ho riletto l’articolo di Justin Glyn, riportato nel libro, e vorrei tornare su un aspetto che ritengo di fondamentale importanza per tutti noi, indipendentemente dalle nostre personali condizioni e credenze.
Mi riferisco in modo particolare alla messa in discussione, da parte dell’Autore dell’articolo, dell’immagine che abbiamo di noi stessi, perché ritengo che essa influisca sulla nostra possibilità di affrontare fino in fondo la questione che egli pone nelle prime pagine: «Come superare la mera retorica dell’inclusione per giungere a comprendere una volta per tutte che le persone con disabilità insieme a quelle senza, sono un tutt’uno, senza distinzione fra “noi” e “loro”?».

Nelle pagine successive Glyn, a partire dal paragrafo Guarire la nostra immagine di Dio guarendo l’immagine di noi stessi, entra nel vivo di questo aspetto, affrontandolo soprattutto dal punto di vista teologico, offrendo quindi un importante contributo alle riflessioni inerenti alla piena partecipazione delle persone con disabilità alla comunità cristiana. Ritengo però che aspetti più generali che riguardano tutti, credenti e non credenti, come la questione posta da Glyn sulla necessità di guarire l’immagine che abbiamo di noi stessi, meritino ulteriori riflessioni, anche in considerazione del tipo di società in cui viviamo.
Propongo perciò una riflessione partendo da quel “giungere a comprendere” di cui alla domanda sopra riportata che, nel contesto in cui si pone, mi fa inevitabilmente andare oltre il sinonimo capire, per considerare invece proprio il comprendere. Una comprensione che sia piena e profonda, che attivi la dimensione affettiva, per cui la cosa entra in noi e viene a far parte di noi, della nostra interiorità e ci cambia. Capire non basta, si traduce solo in parole e atteggiamenti politicamente corretti (retorica dell’inclusione, appunto). Quell’“essere un tutt’uno” non può che scaturire da un’esperienza vissuta.
Da qui le domande: l’immagine che abbiamo di noi stessi ci dà la possibilità di comprendere? La componente affettiva quanto è coinvolta nelle nostre relazioni interpersonali?

I rapporti tra le persone oggi rischiano spesso di essere privi della dimensione affettiva, perché l’immagine che abbiamo di noi stessi tende ad appiattirsi su un’unica dimensione, dove prevale la funzione egoica, in quanto manca un sufficiente contatto con la nostra interiorità, ossia con una dimensione a volte addirittura del tutto sconosciuta. «Ti mostra lo specchio il tuo aspetto esterno: / Ah perché non ti mostra anche l’interno!» (Angelus Silesius, Il Pellegrino Cherubico, 1674). Ciò che lo specchio non mostra, infatti, è proprio il vero centro della persona, attraverso cui ci si può incamminare sulla strada che porta al “tutt’uno”.
L’oblio della nostra dimensione interiore costituisce una dannosa incompletezza che può, poco o tanto, riguardare tutti, persone con disabilità e no. La nostra individuazione, che è già in sé un cammino lungo e difficile, è oggi particolarmente ostacolata, in quanto viviamo in una società intrinsecamente oppressiva, in cui chi è privo di una sufficiente consapevolezza di ciò che in realtà esso è, risulta funzionale al mercato (nuova divinità) ed è indotto ad omologarsi a un modello individualistico, in cui la funzione egoica non può che essere prevalente: «Il mercato tende a creare un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue» (Papa Francesco, lettera enciclica Laudato si’). A ciò concorre il martellamento incessante dei mezzi di comunicazione di massa, che ha un effetto narcotizzante e compromette la capacità di vedere le cose come stanno; esso produce un’assuefazione a un modo di vivere privo di senso, ad una falsa concezione della vita: ne ha fatto cenno Papa Francesco, il 21 ottobre 2022, parlando della dignità delle persone con disabilità, nell’udienza ai partecipanti al Convegno per la promozione della nuova evangelizzazione, che hanno affrontato il tema Catechesi e persone con disabilità. In quella stessa udienza, il Papa ha inoltre affermato che «una visione spesso narcisistica e utilitaristica porta, purtroppo, non pochi a considerare come marginali le persone con disabilità, senza cogliere in esse la multiforme ricchezza umana e spirituale».

Com’è allora possibile che individui chiusi nel proprio individualismo, possano arrivare a sentirsi un tutt’uno con altri? Credo che solo quando riusciamo a svincolarci dai pesanti condizionamenti che gravano su di noi e trovare un certo equilibrio tra le nostre funzioni, ridimensionare il nostro ego lasciando spazio ai nostri sentimenti profondi, possiamo allora vedere chi ci sta di fronte nella sua interezza, ne possiamo cogliere, appunto, la “multiforme ricchezza umana e spirituale”; solo allora, infatti, la relazione diviene autentica, profonda, libera dal peso di ogni genere di diversità e finalmente, di tali diversità si evidenzia l’irrilevanza, alla luce di ciò che veramente è l’essere umano nella sua interezza.

Già presidente dell’ANFFAS Milano (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale) e della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità).

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