Poter sbagliare

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Consegnare all’altro la possibilità di sbagliare è necessario per sperimentare un progetto di vita indipendente. E se quel rischio diventa responsabilità condivisa della comunità, aumenta anche la possibilità di accoglierlo

Ieri sono uscito per la prima volta in bici da corsa, dopo una prima prova l'altroieri con le scarpe "normali".
Con la bici da corsa si usano delle scarpe con tacchetti che rendono piede e pedale solidali in modo più forte.
Cosa che pone, soprattutto per chi non ha mai usato queste scarpe ma le ha solo viste, dubbi su come sganciarsi in situazione di necessità, anche semplicemente a uno stop.
È la bici con cui sono caduto.
Quando sono caduto la bici si è sfilata da me ed è andata lontana, con solo qualche graffio.
Per mesi non l'ho neppure vista, recuperata dalla signora che l'aveva raccolta alla rotonda della caduta.
Poi le prime prove con la bici a tre ruote di Pietro e con la bici normale, prima con la sella un po' abbassata, poi progressivamente riportata all'altezza normale.
E giri in strada, prima solo in pianura e poi con qualche piccola salita.
Bici di bassa qualità, ruote con sfere e raggi forse calibrati per brevissime percorrenze, dentro il paese.
Da qualche tempo avevo cominciato a pensare di riprendere la bici da corsa, magari sostituendo i pedali con una coppia senza attacco per i tacchetti.

E al portare nello spazio del dialogo il tema paure si sono manifestate con forza.
Cinzia atterrita.
Come biasimarla?
Dopo quello che è capitato e con la stessa bici che lei vede pericolosa per sua stessa natura. Le ruote sottili, veloci. I pedali che bloccano i piedi con i tacchetti. E il manubrio che porta a quella posizione sbilanciata in avanti.
Lei si prodiga in consigli che non le ho chiesto. Per l'acquisto di una bicicletta di qualità migliore, ma non da corsa.
Io ascolto queste parole, come non potrei, e ne misuro l'effetto su di me.
Non è solo di Cinzia la paura, io stesso immagino tutte le situazioni che potrebbero risultare pericolose.
E su tutte la curva attorno alla rotonda, di cui ora conosco materialmente il porfido che le circonda e i tombini di ghisa che ne punteggiano il perimetro.
Si tratta di una sensazione forse mai provata in modo così intenso.
Sentire il desiderio di riprendere, allargare l'orizzonte dei giri fino al lago, meta consueta, e avere la possibilità di immaginare qualche variazione, con libertà.
E confrontarlo con la responsabilità di evitare il ripetersi di quello già accaduto "per colpa mia".
Come potrei ritelefonare a casa dicendo sono caduto ancora, potete venire ad aiutarmi?
Una pressione che mi schiaccia mi fa sentire colpevole ancora prima di muovere un gesto.
E irrigidito nei gesti.

Ieri questo dialogo è andato in scena ancora, ma infine ho preso le scarpe con i tacchetti e le ho indossate. E sono salito in bici.
Ho agganciato i tacchetti, dopo qualche tentativo, in gesti non più automatici.
Ho provato a sbloccare il piede e non ho avuto difficoltà, anche a sinistra. E allora ho varcato il cancello per un breve giro di prova in strada.
Ho pensato in quei primi metri a Pietro, al carico di aspettative e di controllo che pesano su di lui. A quale fatica corrisponda la responsabilità di rispondere a quelle immagini e paure. E quanta incertezza in più induca nel muoversi, per non cadere.
Ho pensato a chi ha commesso un reato e, scontata la pena, ritorna in libertà e deve costantemente dimostrare di essere degno di fiducia e ogni respiro divergente potrebbe smentirlo.

Ho fatto la prima curva a sinistra sul porfido, con due tombini sulla traiettoria, quasi da fermo. Per ridurre se non a zero almeno vicino a zero la probabilità di cadere. Perché ora immagino il mio corpo, che prima pensavo resistente, come fatto di cristallo, che potrebbe frantumarsi per un nulla. E tutte le piastre e viti ancora presenti rotolare per terra rumorosamente.
Ogni asperità della strada, che c'era, certo, ma non diversamente dal solito, mi sembrava amplificata. Forse per la pressione delle gomme maggiore nella bici da corsa. Più probabilmente per la rigidità della postura dovuta al timore e anche per la posizione del manubrio, che ti costringe ad essere piegato in avanti.

Il ginocchio sinistro lo sento sfiorare il telaio della bici. L'assetto dell'articolazione, prima compromesso solo nel ginocchio, adesso ha una componente in più. La ricostruzione del femore con le sue possibili approssimazioni e quella vite sporgente che si fa sentire nella pressione contro il tessuto dei vestiti, muovendomi, pedalando. Una catena di giunture che sono state violentate ed ora misurano l'effetto di una riparazione che per quanto accurata lascia il segno.
Misuro la possibilità di una pedalata più rotonda, con la possibilità di esercitare forza non solo verso il basso, ma anche nella fase di risalita della pedalata. E immagino che questo nutra i muscoli ancora deboli della sinistra, per riuscire, finalmente, a salire le scale. Avere un po' più di confidenza anche nel camminare.
Sento il braccio sinistro farsi presente. Già, non solo il femore si è rotto. Ma la spalla è gentile e dopo una piccola fitta non si lamenta oltre.
Poi a un certo punto immagino di potermi alzare senza mani.
Non l'ho mai fatto con la bici normale perché non bilanciata e non sarebbe stato possibile.
Ma con la mia bici da corsa so che posso. L'ho fatto tante volte, per lunghi tratti di strada, anche in salita. Una confidenza col mezzo che però ora è da ricostruire. Da reimparare.
Mi alzo staccando le mani dal manubrio e mi sembra di vacillare, di dovere compensare chissà quali forze che mi tirano di qua e di là.
Si può fare, penso, ma non è così immediato.
Ci riprovo dopo qualche chilometro, quando le condizioni della strada mi sembrano buone. Mi alzo lentamente e completamente, lascio sciogliere le braccia lungo i fianchi, ho la sensazione di abitare un corpo che avevo dimenticato. Quasi mi trovassi in vetta a una montagna e ho la sensazione che anche una passante mi guardi così, come stessi facendo una cosa eccezionale e io sia a un'altezza gigantesca.
Ritorno verso casa sentendo che la pedalata è buona e anche il cavalcavia si supera con maggiore disinvoltura. Entro e tranquillizzo Cinzia. Eccomi. E racconto.
Hai fatto pace col tuo corpo, Irene commenta.

Ma la prova non prova niente, se non l'adesso, che è già diventato passato, un secondo dopo. Oggi la probabilità di cadere è la stessa. Il porfido è ancora lì. I tombini sono ancora lì. La sabbia sulla strada c'è ancora. E le ansie sociali forse si faranno meno sentire, ma ci sono ancora tutte e per superarle sarà necessaria molta energia. Più di quella necessaria per pedalare. Anche in salita.

Le persone con disabilità, e in particolare coloro che necessitano di maggiore supporto per esprimere la propria volontà, vivono costantemente questa condizione di controllo, di concessione condizionata di libertà, di impossibilità di sbagliare, di programmazione da parte di altri del proprio tempo, del proprio spazio, della propria vita.

La proposta di legge di Ledha interviene nello spazio legislativo, e quindi sociale e culturale, per cercare di modificare questa situazione. Che vede ancora largamente prevalere un atteggiamento di protezione e assistenza rispetto alla possibilità di esercitare scelte per la propria vita.

La novità importante di quel progetto di legge è il "tutte" che comprende le persone con disabilità, anche quelle finora considerate oggetto di assistenza.

La legge delega in materia di disabilità 227 del 2021 pone delle basi interessanti per andare in questa direzione, di coinvolgimento della persona, ma deve essere sostanziata dai decreti che sono in corso di discussione e in cui il confronto promosso anche da questa rivista si inserisce. In questo mio contributo considero questi passaggi che cerco di sviluppare in modo sintetico e spero significativo.

Il binomio “È possibile?” – “È possibile.”

Nel 2019 il Centro studi Erickson organizza il secondo convegno internazionale “Sono adulto. Disabilità, diritto alla scelta e progetto di vita”. Nelle sessioni plenarie e soprattutto nei diversi workshop due approcci si propongono, per la verità senza un adeguato spazio di confronto diretto, ma parallelamente. Forse perché se ne percepisce la conflittualità. Il primo approccio è quello di chi si domanda, chi con prospettiva di ricerca chi con prospettiva più operativa, se sia possibile o no parlare di autodeterminazione per le persone con “gravi disabilità”. Si utilizzava e si utilizza ancora questa espressione, “per capirci, per semplificare, perché la legge è scritta così e nei bandi siamo obbligati a scrivere così”. E si continua a promuovere una cultura della disabilità come fatto personale, che riguarda la persona come sua caratteristica peculiare e conseguentemente le persone legate da una relazione familiare. Qui preferiamo usare l’espressione “persone con maggiore necessità di supporto”.

È possibile parlare di autodeterminazione per le persone con maggiore necessità di supporto? La domanda sembra interessante e infatti apre a numerose speculazioni, sia sul piano della ricerca, prevalentemente in campo psicologico, sia sul piano esperienziale, operativo. È una domanda che però costringe a stare al confine del tema, senza entrare, senza confrontarsi con cosa possa significare vivere spazi di autodeterminazione per chi ha più difficoltà ad esprimerla.

Una curiosità intellettuale che continua a considerare la persona con disabilità come oggetto di ricerca o di cura, guardandola sotto un vetrino al microscopio.

L’altro approccio modifica la domanda in un’affermazione. L’autodeterminazione è possibile per le persone con disabilità con maggiore necessità di supporto. Apparentemente si tratta di un’affermazione da giustificare, da corroborare con dati di ricerca. Invece l’affermazione ha un carattere di assioma. E l’importante diventa cercare di dare risposta alla domanda che subito si affaccia: come? Dare forma a possibili risposte che permettano alla persona di esprimere una scelta, libera, significativa. Non un punto di arrivo rispetto alla domanda del primo approccio quindi, ma un punto di partenza che apre all’esplorazione creativa e scientifica e umana e sorprendente e faticosa di come fare in modo che questa scelta abbia spazio ed energia per esprimersi.

Proseguendo assumerò il secondo approccio.

Il nodo dopo di noi / CRPD

Intrecciato al binomio sopra considerato, ma con una sua specificità, c’è il nodo conflittuale fra ciò che sta alla base dell’espressione dopo di noi, che sposta il focus sulla famiglia marginalizzando la persona con disabilità, e l’individualità, in qualche modo la pretesa di bastare a sé stessi presente in alcuni passaggi e in certo grado nello spirito stesso della convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (CRPD).

Il nodo è proposto come centrale dall’intervento di apertura del percorso formativo sulla legge 112 dell’ATS di Milano, da parte di Matteo Schianchi, storico, docente dell’università Bicocca di Milano e autore di numerosi testi di riferimento per il tema della disabilità, ultimo fra questi "Disabilità e relazioni sociali". 

Lo sguardo che porta a concettualizzare il dopo di noi è legato a quello che Giovanni Merlo chiamava approccio familistico nell’intervento nel precedente numero della rivista. La famiglia è considerata il “naturale” spazio in cui la persona riceve le risposte sociali, e l’arrivo di un figlio con disabilità è ancora oggi considerato una disgrazia o una benedizione, secondo la prospettiva sociale e religiosa, che la riguarda direttamente e esclusivamente. È “naturale” sia la famiglia soprattutto nelle situazioni più complesse a rispondere con impegno totale alle necessità di educazione e di cura anche sanitaria dove occorre del bambino e poi dell’adolescente. E quando si affaccia l’età adulta la richiesta di distacco diventa complessa, innaturale, quasi violenta. E il venir meno della capacità di risposta piena e incondizionata dei genitori e per estensione anche dei fratelli e delle sorelle viene letto come passaggio drammatico.

È quindi comprensibile la genesi del costrutto linguistico e culturale del dopo di noi, di tutta l’attenzione anche legislativa che le è stata dedicata. In questo scenario però la persona con disabilità è solo oggetto di assistenza, che potrà avere qualità più o meno alta, ma siamo sempre a cavallo fra i paradigmi che Miguel Angel Verdugo chiama istituzionale e della integrazione. Chi assume le decisioni è o il solo medico o in modo più allargato un’equipe multidisciplinare, con la valutazione multidimensionale, ma sempre in assenza della persona con disabilità.

Questo approccio che ha occupato fin qui l’intero spazio del dibattito e delle prassi nella risposta sociale alla vita adulta delle persone con disabilità è ancora largamente presente e maggioritario anche nel contesto italiano. Approfondiremo questo anche nel paragrafo “Sì, siamo d’accordo col principio, ma…”. Qui basti segnalare quanto l’approccio intessa le politiche concrete che determinano le condizioni di vita delle persone, anche molto al di là dell’avanzamento nei documenti ufficiali e nella retorica inclusiva delle politiche sia istituzionali, sia anche dell’ambito cooperativo e associativo.

A fronte di ciò arriva la CRPD con la sua carica rivoluzionaria e cambio di paradigma. Che Miguel Angel Verdugo chiama di appartenenza alla comunità.

Matteo Schianchi (Schianchi, 2021) rileva come la CRPD sia invocata per lo più in chiave difensiva, invece che come strumento di lavoro. Nonostante la velocità delle comunicazioni quasi istantanee a livello globale la Convenzione, quasi fosse un documento del Concilio di Trento, fatica ad arrivare negli spazi di vita delle persone, anche se sono trascorsi 16 anni dalla sua promulgazione e 13 dalla sua assunzione nella legislazione italiana.

Viene usata come preambolo per i piani di zona e per le leggi regionali, ma come spesso accade anche per la Costituzione è considerata utopica, distante, come puro elemento di auspicio a cui tendere, in un tempo infinito.

Nel nostro Paese numerosi sono i tentativi di uscire da questo equivoco, particolarmente significativo quello del Centro studi diritti e vita indipendente di Torino coordinato da Cecilia Marchisio, con approfondimento teorico scientifico ed esperienziale.

Ma l’approccio affermativo dei diritti naturali appare a molti come inapplicabile e quindi irrilevante in una casistica la cui ampiezza per alcuni si riferisce alle condizioni di disabilità più complesse con maggiore necessità di supporto e per altri alla molto più numerosa platea di tutte le persone con disabilità intellettiva e relazionale, o afferenti l’area della salute mentale.

Con ancor maggiore forza il modello sociale di disabilità viene spesso portato ad esempio di distanza dalla realtà, considerando ideologico e senza conseguenze applicabili, se non per le sole persone con disabilità solo motorie e sensoriali, il suo impianto argomentativo e rivendicativo.   

Ambiguità del termine vita indipendente

Su questo nodo si gioca anche l’ambiguità dell’espressione utilizzata dalla CRPD, espressione che ogni volta ha necessità di essere caratterizzata, specificata. Vita indipendente nel senso dell’articolo 19 della convenzione Onu, di possibilità di scelta concreta della persona rispetto agli ambiti significativi per la propria vita.

In rete si leggono ancora oggi documenti in cui associazioni di persone con disabilità riportano il concetto legato all’esperienza dell’independent living che per quanto sia stato cruciale anche per lo sviluppo del concetto riportato nella CRPD si riferiva alla ristretta situazione delle persone con disabilità motoria, e la risposta privilegiata in quel senso era ed è quella dell’assistenza personale autogestita.

Quello di cui parla la proposta di legge di LEDHA, di cui parla la legge delega in tema di disabilità, non significa necessariamente “andare a vivere da solo”, concetto a cui il costrutto linguistico vita indipendente sembra rimandare in modo più immediato e comune. Sarebbe stato opportuno individuare un costrutto meno ambiguo? Probabilmente sì. Qualcuno propone autodeterminazione partecipata. Ma anche rimanendo su questo che abbiamo e stando alla definizione dell’articolo 19 della Convenzione possiamo dire che, come per l’autodeterminazione, la vita indipendente sia possibile per tutti, in grado diverso, utilizzando tutti gli strumenti necessari e che nel corso di questi decenni sono stato sviluppati e si sviluppano. A questo dedico un paragrafo più avanti.  

Sì, siamo d’accordo col principio, ma…

Nel dibattito su risposta sociale a carattere protettivo assistenziale ed espressione del proprio protagonismo non assistiamo come si potrebbe pensare a una polarizzazione con istituzioni da una parte e mondo cooperativo e associativo dall’altro. Si tratta in realtà di un confronto che attraversa in modo conflittuale e trasversale entrambi i campi.

La CRPD e il piano dei diritti che vengono promossi sono vissuti da molti come inadeguati per dare risposte concrete. Concretezza.
Questa è la parola che spesso viene invocata per non affrontare mai un necessario cambiamento strutturale, che naturalmente coinvolge non solo qualche modifica ai servizi, ma un loro ridisegno dentro una messa in discussione profonda.

Ci sono motivazioni storiche, culturali, profonde in queste prese di posizione e non ultime anche economiche, per il coinvolgimento a livello di gestione del mondo cooperativo e associativo.

La stratificazione delle rappresentazioni sociali (Lepri, 2011), solo apparentemente sostituisce le più antiche con l’avvento delle più recenti. In realtà come Lepri dice nella sua argomentazione gli strati antichi sono ancora lì, pronti a manifestarsi con tutta la loro forza. Sia la rappresentazione dell’errore di natura da correggere, nella infinita operazione di riabilitazione. Sia nella ancora più profonda e antica rappresentazione del figlio del peccato, senso di colpa che i genitori devono espiare attraversando tutte le dimensioni del dolore, della sofferenza, sublimandola.

Il concetto di liminalità evidenziato da Schianchi nel suo libro (Schianchi, 2021), ben rappresenta questa situazione. Né di qua né di là. Così l’autore dipinge la condizione della persona con disabilità. Non disumana, ma neppure completamente umana. Una certa  indeterminatezza per la verità è dell'essere umano. Che se cerca di afferrare con nettezza i contorni della sua storia, l'inizio e la fine, è colto da vertigine, tutto sembra perdere senso.

E allora ci si rifugia nel mentre. Nelle occupazioni dell'oggi.

Ma esistere è più che vivere dice l’autore.

La ricerca di uno spazio di consapevolezza possibile per la persona con disabilità, come per ciascuno, è uno spazio individuale o con una dimensione anche sociale? Ne provo a dire nel paragrafo che segue. Qui mi sembra necessario dire che per il mondo cooperativo e quello associativo sia necessario un confronto franco e rispettoso per uscire dalle ambiguità che hanno caratterizzato fin qui l’adozione della CRPD come strumento. Sì, siamo d’accordo col principio, ma…

Il tema della transizione

Nello spazio di discussione anche nel mondo cooperativo e associativo questo della transizione, sul come andare da qui a lì, è spesso evocato e ugualmente spesso non affrontato. Per essere credibile il rimando a una transizione, l’auspicio di una transizione, deve definire delle azioni di modellamento dell’approdo, delle azioni di abbandono di pratiche correnti ritenute inadeguate. Deve prefigurare un tempo in cui il passaggio avviene, degli elementi di verifica in itinere, delle possibili azioni correttive. Deve poter considerare anche degli elementi di rottura e di come possano essere gestiti. Se il ponte è obsoleto è necessario chiuderlo al traffico, fare manutenzione se possibile, o abbatterlo e ricostruirlo se necessario. Ci saranno dei disagi e sarà necessario considerarli, renderli trasparenti e cercare di minimizzarli.

La pandemia ha evidenziato drammaticamente, se ce ne fosse stato bisogno, l’inadeguatezza del modello custodialistico delle diverse forme di servizi residenziali o diurni, dedicati e separati.

È il tema della segregazione. Parola dura, urticante, a cui si ribellano i tanti gestori di questi servizi che rivendicano le proprie intenzioni e pratiche inclusive. Ma l’impossibilità di relazione amplificata enormemente rispetto a quella vissuta dalla popolazione in generale è un dato che si è manifestato in modo evidente. Allora è necessario porre mano ai modelli e cambiarli, sovvertirli. Se non ora quando? Ascoltare la voce delle persone con disabilità su ciò che le riguarda, invece di mantenerle a livello di sopravvivenza.

Progetto individuale?

Una delle critiche riferibili all’impianto della CRPD è un certo carattere individualistico a cui una lettura superficiale può prestarsi e a cui la concettualizzazione in termini di diritti dà corpo. Ma se per alcune situazioni, numericamente minoritarie, la scelta individualistica è realizzabile, al di là di una valutazione di carattere etico e morale, per moltissime altre persone il tema si pone più a livello di contesto sociale. Che può favorire spazi di indipendenza perché in grado di sopportare l’errore, di essere in grado di gestire il rischio. A questo riguardo appaiono particolarmente inadeguati dispositivi che parcellizzano la risposta, definendo vincoli amministrativi e di accertamento della qualità che non riescono a considerare aspetti relazionali, che non riescono a valorizzarli né a promuoverli.

Diventa cruciale il lavoro degli operatori educativi in termini di tessitori di reti sociali, di occasioni di scambio, di coinvolgimento della comunità, non come semplice luogo dove vengono svolte delle attività, ma come attore significativo per attivare relazioni, generare senso, bellezza.

Come si coinvolge la comunità?

Il tema del coinvolgimento della comunità appare d’altra parte di complessità intimorente. La costruzione di società liberaldemocratiche, competitive, meritocratiche, sembra dare sostanza al thatcheriano “there is no alternative” invocato per affermare la naturalità della soluzione che si propone. Assistenzialistica. Segregante. Familistica. Compassionevole. Personalmente non ho strumenti sociologici per proporre modelli su questo versante. Ma credo sia necessario investire sulla ricerca in questa direzione. Nel campo dell’economia civile ci sono concettualizzazioni ed esperienze interessanti. In fondo siamo il Paese che ha visto svilupparsi l’esperienza di Adriano Olivetti. Il suo modello ha forse ancora qualcosa da dirci.

Si tratta di un terreno in cui la prospettiva non può che essere lunga, molto lunga. Disegnare e realizzare dei modelli di società in cui lo spazio individuale sia importante e riconosciuto, ma non sia pervasivo e lasci spazio alla collaborazione in cui misurare la propria soddisfazione e non nella rincorsa a salire sull’ascensore sociale. Dove io salgo lasciando i più a terra.

Come esprimerlo? Il crinale fra supporto e libera espressione.

Le scelte che compiamo rispondono ai principi di autodeterminazione che alcuni studiosi individuano nella autonomia senza interferenza, nella piena consapevolezza, nella chiarezza degli obiettivi, nella costruzione coerente della propria realizzazione?

Lo spazio del possibile viene semplicemente dato o può essere costruito cooperativamente, e come?

Probabilmente nessuna persona, o forse pochissime, si muovono nella propria esistenza sulla base di un progetto definito, sancito, pianificato, che preveda le possibili perturbazioni, che ne definisca i possibili bivi e le conseguenti scelte. E probabilmente nessuna persona, o forse pochissime, prendono decisioni importanti in modo solitario, senza interferenze, cercate o subite che siano, senza condizionamenti.

Troppo spesso le attuali progettazioni si limitano a considerare le poche scatole concettuali disponibili dentro cui decidere di investire il tempo della propria vita. E troppo spesso, quasi sempre, sono considerate scelte definitive.

Occorre rompere la rigidità delle standardizzazioni e delle funzioni di sorveglianza della qualità basate su aspetti formali che non considerano l’esito, o la considerano solo in modo formale, la qualità di vita delle persone.

Occorre lasciare spazio all’immaginazione e alla generatività che si manifestano nel dialogo, nel confronto, nell’ascolto. Esperienze molto interessanti in questo senso sono rappresentate dal filone dialogico finlandese (Seikkula e Arnkil, 2013) riprese anche in esperienze significative nel nostro Paese. Ne hanno scritto in modo interessante e esemplificativo Cecilia Marchisio e Natascia Curto nella loro trilogia per Carocci (Marchiso, 2019-2020).

Come si costruisce il progetto. Strumenti.

È allora inutile definire un progetto, come immaginato in modi diversi dalla legge 328 del 2000, come proposto da LEDHA nella legge regionale, come definito nella legge delega del 2021? Certamente no. È importante considerare un orizzonte di tempo significativo e focalizzare le aspettative, i sogni, considerando i vincoli, le attitudini, le potenzialità, le occasioni. E darsi degli strumenti per provare a disegnare e realizzare questi passi immaginati.

Ma gli strumenti per ciò di cui stiamo parlando riguardano anche e forse prioritariamente lo sviluppo del disegno, ancor più che la sua realizzazione. Lo sa qualunque progettista di un sistema informatico, una piattaforma web, poniamo. Chi chiede la consulenza, “il cliente”, è esperto del suo dominio, sa quali siano i dettagli del suo operare e sa quali siano cruciali e quali quelli accessori, ma ha spesso un’idea sommaria di quello che vuole sia realizzato. Gli mancano le parole e le immagini. Un buon progettista ascolta con attenzione e si lascia informare e suggestionare dalle parole e dalla conoscenza dell’interlocutore e lo aiuta a immaginare quale sia la risposta concreta che preferisce si costruisca. E molto spesso si tratterà non di un singolo soggetto ma di un gruppo, al cui interno sta quella conoscenza.

Si tratta di un processo complesso e delicato in cui si può tagliare corto vendendo la soluzione standard che si ha già nel cassetto o dedicando il giusto tempo in cui si può costruire qualcosa di veramente bello e interessante e funzionale ed economicamente realizzabile.

Cito qui tre strumenti: matrici ecologiche, metodi dialogici, CAA per l’accesso alla cultura.

Ciascuno di questi strumenti rimanda a una grande complessità e articolazione interna. Non voglio certo sviscerarli qui, non ne avrei neppure la conoscenza adeguata.

Che fare? Ciascuno ha in mente un nutrito catalogo di situazioni in cui ciascuno di questi strumenti è inefficace. Non si tratta della mancanza di prerequisiti della persona, molto spesso presi a pretesto per non mettere a disposizione alcuna possibilità, alcuno strumento, ma molto spesso di mancanza di prerequisiti del contesto, in termini di conoscenza, di risorse, di disponibilità a esplorare percorsi nuovi. Non sembra allora esistere alternativa a selezionare la selce con cui costruire nuovi utensili, e verificarne l’efficacia rispetto a quella persona specifica in relazione a quella situazione specifica. Certo, muovendosi col metodo scientifico, ma considerando il termine nella sua accezione più pertinente allo spazio sociale e di vita, quindi non solo sanitario e non solo basato sul raggiungimento di obiettivi decontestualizzati.

Cercando di evitare la tentazione di affidarsi fideisticamente a uno strumento che, come le macchine del professor Balthazar, ci forniscano la soluzione bell’e pronta buttando qualche ingrediente, qualche dato, nell’imbuto di input.

Un metodo scientifico che sappia uscire da una certa semplificazione e banalizzazione del modello e che sappia considerare le perturbazioni, l’infinita variabilità delle situazioni umane e che ponga come metro ultimo del successo o meno di un processo il risultato in termini della persona coinvolta.

Da questo punto di vista il metodo dialogico nelle sue accezioni di dialogo aperto e dialogo sul futuro (Arnkil, Seikkula, 2013) sembra offrire allo spazio di progettazione che qui ci interessa qualche garanzia in più. Il progetto così costruito avrà bisogno di più tempo, ma avrà una significatività maggiore. E avrà sviluppato anche metodi e prassi e relazioni significative per la realizzazione.

Mi permetto di descrivere qui con un minimo di maggiore dettaglio il tema della CAA per l’accesso alla cultura, tema che conosco meglio.

Il nostro Paese vede la presenza di uno sviluppo molto interessante, e per ora ancora unico a livello internazionale, di una narrativa in simboli della comunicazione aumentativa che ha ormai una ventina d’anni. Questa specificità ha esplorato modalità diverse di rappresentazione simbolica e linguistica, ma con la base comune del desiderio di permettere l’accesso alla cultura a chi non può accedere o ha difficoltà ad accedere al codice alfabetico. Ascoltare le storie che sono alla base della nostra cultura, dalla voce prima dei nostri genitori e poi anche di altri interlocutori, è stata la base con cui ci siamo costruiti una rappresentazione del mondo. Poter avere accesso a quelle storie, e poi a racconti e testi sempre più adulti e complessi, diventa la chiave per poter avere le parole per esprimere le proprie scelte, magari anche sovvertendo i paradigmi presenti in quelle storie, nella cultura che le esprimeva.

È qualcosa di simile a quanto fatto da don Lorenzo Milani con i bambini e ragazzi e poi adulti di Barbiana. Dare le parole.

O al contrario ciò che George Orwell immagina in 1984 nell’impoverimento progressivo della lingua, con la neolingua. Togliere le parole.

E non di soli libri di narrativa è intessuta la nostra base culturale. Ma di consapevolezza dello spazio pubblico, orientarsi in un ospedale, sapere come si svolge un esame diagnostico, conoscere la storia della città che abito, i diritti e doveri di cittadino, come e per chi votare. E tornando al tema della progettazione della vita indipendente: dove e con chi vivere, come trascorrere il mio tempo, al lavoro e fuori dal lavoro, quali relazioni coltivare e facendo cosa insieme. Possibilità di nominare, costruire, immaginare e dare forma insieme a una costruzione provvisoria, ma comunque importante. Cercando insieme le parole migliori, che stanno meglio insieme, per esprimere il mio pensiero.

Persone con maggiore necessità di supporto

Questo approccio considerato nella sua dimensione di sistema, riguardante non solo il singolo ma il contesto sociale, considerando l’affiancamento di strumenti pronti tra cui scegliere, i libri ad esempio, e strumenti costruiti in modo personalizzato, tabelle di scelta, tabelle di comunicazione, strumenti per la consapevolezza di cosa succederà nell’arco di un certo tempo o di un certo processo, strumenti per esprimere non solo bisogni primari ma anche emozioni, e poi pensieri, questo approccio può diventare una possibilità per permettere l’espressione di autodeterminazione anche alle persone che necessitano di maggiore supporto.

Fattore comunque fondamentale, particolarmente in queste situazioni complesse, ma per tutte le situazioni, è il rispetto dell’alterità, fin da quando "l’altro” è un bambino, anche un bambino molto piccolo. E anche quando "l’altro” sembra non essere in grado di esprimere se non bisogni primari. Per quanto difficile sia l’operazione di consegna di responsabilità al figlio con grandi difficoltà nel gestire la propria vita, per quanto siano sempre in agguato possibili condizionamenti, per quanto sia o sembri fragile e contraddittoria l’espressione di una scelta, non c’è alternativa a fornire concretamente occasioni reali e significative di scelta per poter irrobustire questa capacità.


Non è possibile farlo fingendo o addestrandosi in spazi palestra, come è ancora molto diffuso in ambiti residenziali, diurni o cosiddetti di formazione all’autonomia.

Non necessariamente l’abitare è lo spazio primario in cui esercitare queste scelte. Non necessariamente soprattutto per persone con maggiore necessità di supporto. Ma questo non può essere mai giustificazione per non attivare occasioni concrete di protagonismo, di partecipazione.

Esempio in questo senso è la scrittura collettiva.
In Lettera a una professoressa il testo è superiore alle singole capacità espressive dei ragazzi, è lo spazio di possibilità che è stato creato che permette  il contributo anche a chi non saprebbe iniziare un pensiero davanti alla pagina vuota. È un’esperienza che abbiamo visto funzionare, scrivendo in simboli, anche con persone adulte che fino a quel momento non avevano mai potuto pensare di poter scrivere una storia. Il Gruppo parola promosso presso l’Arche di Bologna è un esempio significativo in questo senso. L’iniziale ritrosia e dipendenza dall’educatore lascia spazio alla possibilità di dire una propria parola, di scegliere fra due alternative poste dai compagni, il protagonista muore o uccide il drago?

Poter sbagliare

Consegnare all’altro la possibilità di sbagliare e poter sperimentare la responsabilità della scelta, la conseguenza di quella scelta. Accettando il rischio, anche quello che la fiducia accordata possa essere tradita. Accettando il rischio che possa accadere una caduta, anche rovinosa.
Accettando che ci sia un rischio, sia pur reso il minimo possibile, anche mortale.
Eliminare quel rischio significa rinunciare a vivere, non esistere.

Se il rischio non è assunto dal singolo o dalla sola famiglia, ma diventa assunzione di responsabilità allargata, nella comunità, allora aumenterà la possibilità di accoglierlo. Potrò sbagliare strada, perché ci sarà qualcuno che mi aiuterà a ritrovarla. Potrò trovarmi senza parole davanti a uno sportello perché ci sarà qualcuno che mi aiuterà ad esprimere la mia domanda. Può succedere che io cada in casa da solo, perché c’è qualcuno che si interessa di come sto e se ne accorge e mi viene in soccorso. Può accadere che io scivoli sul tombino ghiacciato al bordo di una rotonda, perché qualcuno si preoccuperà di deviare il traffico e chiamare l’ambulanza e aiutarmi nell’attesa. E ci sarà il servizio sanitario universale a cui mi potrò rivolgere con fiducia.

Infine.

Non si tratta di individuare panacee, ma di rispettare sempre l’alterità, la dignità dell’altro. Essere umano, fratello, compagno di strada.
E insieme costruire situazioni creative, personali, interessanti, belle, e trarne soddisfazione insieme.

Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul numero di ottobre della rivista Universability

Sono padre di Irene e Pietro, Pietro giovane con disabilità intellettiva. Lavoro nel Centro sovrazonale di comunicazione aumentativa, nel Policlinico di Milano. Sono ingegnere elettronico e consigliere di Ledha. Il 19 dicembre 2021 sono caduto in curva, in bicicletta. Con frattura frammentata e scomposta del femore e dell’omero all’altezza delle articolazioni dell’anca e della spalla.

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