Associazione Stefania è nata nel 1971; un gruppo di familiari, che vivevano in prima persona l’esperienza di avere un figlio con disabilità, e un gruppo di amici sensibili e decisi si sono uniti per trasformare in una battaglia di civiltà quello che fino ad allora era rimasto un dramma del tutto privato, al fine di riconoscere i diritti e la dignità di tutte le persone con disabilità.
I soci fondatori di Associazione Stefania erano concordi nel sostenere che il nodo da affrontare non fosse solo la promozione di servizi adeguati, ma anche lo sviluppo di una cultura poggiata sull’accoglienza, sulla conoscenza e sulla solidarietà.
Sono ormai passati cinquant’anni e da Associazione sono “gemmate” diverse organizzazioni, attività e iniziative dando vita a quello che chiamiamo Sistema Stefania. Tutte queste diversificazioni condividono il sogno di partecipare alla costruzione di una società solidale e inclusiva, dove ognuno possa essere un cittadino attivo secondo le proprie possibilità, e dove costruire quotidianamente opportunità di incontro, dove le persone possano conoscersi e riconoscersi.

Educatore come mediatore e promotore di una cultura inclusiva. Pensare fuori dagli schemi è possibile?

A fronte di un quadro di diffusa incertezza legata al contesto economico e alla situazione socio politica, gli operatori di Fondazione Stefania hanno sentito in questi anni, e sentono tuttora, la necessità di apportare cambiamenti che coinvolgano l’offerta educativa e l’operato che ne consegue.
Non si tratta di stravolgere tutta la gestione dei servizi educativi, ma di chiarire quale possa essere la loro funzione e ritrovare i fondamenti pedagogici di un impianto di attività.
Diverse riflessioni hanno coinvolto il ruolo dell’educatore professionale: ci sembra sempre più impellente porsi la domanda su che cosa significhi fare l’educatore, dentro e fuori un centro strutturato, e soprattutto se questa professione può agevolare l’esercizio di diritti fondamentali per la persona.

Ci si è soffermati sul fatto che per noi risulta essere una professionalità che opera con una duplice centratura: da un lato con e per la persona con cui lavora, dall’altro con e per la società in cui la persona vive o si interfaccia.
L’educatore si trova a stretto contatto con le fragilità delle persone, con le loro speranze e i loro desideri che si intrecciano inevitabilmente con i luoghi di appartenenza, e con le loro differenti capacità. Agire sulle competenze relazionali, sia delle persone con disabilità che della comunità stessa, fa sì che il lavoro dell’educatore oscilli tra una dimensione individuale e una sociale, con un’attenzione particolare al processo che ne scaturisce, così che l’incontro possa essere occasione di crescita e scambio per ambo le parti coinvolte.

Detto ciò, non mancano punti di criticità. Spesso, infatti, le proposte dei servizi educativi faticano a diventare occasioni di crescita individuale e sociale, da qui la nostra scelta di potenziare le attività di inclusione, la creazione e la realizzazione di momenti esperienziali, per avere la possibilità concreta di guardare oltre il tempo presenti.
Mettere al centro con maggiore attenzione la persona, e tutta la sua storia, per costruire insieme un progetto di vita reale e appagante, cercando anche di capire come intervenire nel caso questo non venga preso in considerazione dagli enti competenti.
L’idea che muove i nostri pensieri rispetto ai servizi offerti e al ruolo dell’educatore professionale è la necessità sempre più evidente di attivare adeguati percorsi formativi che coinvolgano le persone con disabilità e le loro famiglie attraverso un approccio partecipativi.
Rivalutare il concetto di autonomia, il momento formativo e la fase socializzante e riconoscere un ruolo di cittadino attivo all’interno della comunità, con diritti e doveri, ed evitare che l’unica risposta ai bisogni personali siano i servizi standardizzati.
Individuazione, autonomia e cittadinanza attiva sono le tre parole che meglio riassumono l’intervento pedagogico che stiamo mettendo in campo attraverso una didattica esperienziale. Non più solo sapere, saper fare e saper essere, ma potenziare un quarto sapere fondante gli altri tre: l’esperienza, intesa come la capacità di imparare dalla vita quotidiana in modo diretto e profondo.

La nostra attenzione non è rivolta a rendere la persona con fragilità socialmente più adeguata, piuttosto a permetterle di sviluppare la propria identità e sostenerla per spendersi nei contesti della comunità circostante.
In una società multiculturale intravediamo però il rischio che di volta in volta vengano scelti alcuni valori come “i migliori”, in quanto la cittadinanza è diversa non solo per le fragilità ma anche per aspetto, lingua, cultura e provenienza. Il lavoro educativo con il territorio, per la realizzazione di un progetto di vita condiviso, è possibile solo dalla presa di coscienza della propria e altrui unicità, intesa come valore portatore di reciproco arricchimento. E noi educatori siamo chiamati a fare da mediatori nell’incontro con tutte le diversità, comprese le nostre.
Ci si è attivati, e si sta lavorando in questa direzione, per creare insieme alla realtà circostante un percorso di vita e far sì che in futuro la persona con fragilità possa frequentare autonomamente il territorio, in un contesto capace di relazionarsi con tutti. Si tratta di costruire un processo che tenga conto di condividere dei possibili obiettivi e che preveda una suddivisione dei compiti. Diventa fondamentale gestire la relazione, motivando, sollecitando e accogliendo dubbi da parte dei referenti al fine di contenere timori.

Riteniamo che questo approccio, derivato dall’analisi fatta in questi anni e dalle sollecitazioni portate dalla DGR. 5320, non riguardi solo le persone con disabilità, ma sia un’opportunità di pensiero e di azione reale che coinvolge tutti.
È giunto secondo noi il tempo di fare comunità, capire i territori, creare un contesto più civile e accogliente, fare cultura, e chi opera nel sociale è chiamato in prima persona a dare il proprio contributo: un’azione che per essere funzionale deve per forza diventare un’azione corale.

Le persone con disabilità e le loro famiglie, quali aspettative dopo la pandemia?

Dopo questi anni di pandemia, ci sembra che oggi le aspettative delle persone con disabilità siano molto chiare e si potrebbero riassumere così: tornare a respirare!
Osservando e ascoltando, infatti, emergono una fortissima voglia di tornare a una normalità libera da mascherine e limitazioni (nonostante la maggior parte delle persone abbia fatto suo il rispetto di norme e utilizzo dei dpi) e un forte desiderio di poter vivere una socialità piena.
Purtroppo le misure di sicurezza hanno inciso in modo molto negativo sulle fragilità di ognuno di noi, aumentando stereotipie già presenti o amplificando paure.
Più che comprensibile, quindi, la voglia di condivisione e di tornare ad uscire sul territorio, l’aspettativa che sembra essere la più grande.

Le famiglie, a nostro avviso, sono forse le figure più provate da questi anni. Nei nostri centri hanno trovato spazi di ascolto, che probabilmente sono mancati altrove, e un vero e proprio punto di riferimento, che ha permesso di mantenere per i loro figli un ritmo giornaliero, una socialità e una sana routine da vivere fuori casa.
In merito al tema della vita autonoma, le persone con disabilità e le loro famiglie appaiono più consapevoli rispetto al percorso di emancipazione che li coinvolge attraverso il Progetto Individuale di Vita, come realizzazione delle aspettative esistenziali e dei desideri personali. Si evidenzia una maggiore diffusione del pensiero, anche se permangono problematiche relative al distacco e alla gestione emotiva.

La legge sul Dopo di Noi e la diffusione dello strumento dei progetti di vita ha sicuramente inciso e promosso questo cambiamento. Allo stato attuale, però, molti cittadini segnalano una carenza di informazione e di orientamento rispetto alle possibilità offerte e alle soluzioni attuabili.
Il ruolo delle istituzioni risulta fondamentale attorno a questo aspetto, sia come sostegno alle famiglie, sia per la condivisione di responsabilità e partecipazione alla co-progettazione di servizi sperimentali rispetto all’abitare. Riteniamo sia altrettanto necessario che le realtà sociali circostanti svolgano il ruolo di punti di riferimento per la diffusione di questo tipo di tematiche.
Le aspettative e i bisogni che emergono si scontrano però con una situazione economica sempre più precaria sulla quale va a incidere il perdurare di una crisi generalizzata. 

Come evidenzia il Comitato Tecnico Scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità (24 marzo 2021): “I segnali di deprivazione più rilevanti sono i seguenti: il 67% delle famiglie nelle quali vive almeno una persona con disabilità non può permettersi una settimana di vacanza all’anno lontano da casa; il 53,7% non è in grado di affrontare una spesa imprevista di 800 euro; più di un quinto non può riscaldare sufficientemente l’abitazione o consumare un pasto adeguato almeno una volta ogni due giorni”.
In molti contesti queste condizioni possono precludere l’accesso ai servizi, in particolare quelli legati allo sport e al tempo libero, le occasioni di vacanza e svago, nonché una prefigurazione e programmazione sul futuro.

Il progetto mentore, come contrastare la segregazione e l’isolamento sociale

Quanto è difficile ritagliarsi spazi di condivisione di buon tempo libero con altre persone, sentirsi parte di una comunità, e quanto questo è maggiormente faticoso oggi in una società dove a volte non si trova neppure il tempo per se stessi.
Immaginiamo quanto tutto questo possa essere ancor più faticoso per una persona con disabilità, quasi a sembrare un ostacolo insormontabile.
Uno dei tentativi che stiamo portando avanti a contrasto di situazioni di segregazione e di isolamento sociale, è il nostro progetto Mentore, che ha tra gli obiettivi la facilitazione della messa a fuoco del proprio progetto di vita per la persona con disabilità, e la sua traduzione in pratica con coerenza ed efficacia: accompagnare verso il mondo, la comunità, verso le altre persone, porsi come ponte intermediario per far sì che il contesto sociale si trasformi in volti noti che si avvicinino e riconoscano la persona in questione come una di loro.
Attraverso il progetto, che vede coinvolta la persona con disabilità e un educatore nelle vesti di mentore, ovvero di guida, si cerca di ridare fiato alla quotidianità e ritmo alla vita della persona interessata, la quale ha tanto tempo da condividere ma non sa come, dove e con chi.
Entrare nella vita delle persone, proporre cose nuove, attraenti ma allo stesso momento preoccupanti, è sicuramente difficile, ed è quindi fondamentale approcciare con delicatezza e rispetto.
Il medesimo rispetto che induce il progetto mentore a far sua l’idea che il percorso deve necessariamente essere condiviso e costruito con la persona con disabilità, dandole ampio spazio e ragione di dire il suo pensiero, esprimere i suoi desideri e le sue aspirazioni.

Conoscere la persona con disabilità, parlare con lei, condividere un caffè al bar, raccontarsi e poi fare una mappatura del territorio, vedere cosa offre la città e se ciò è compatibile con gli interessi della persona in questione; contattare gli spazi aperti al pubblico, recarsi sul luogo e provare a frequentare quegli ambienti con la persona stessa, affiancarla per lungo periodo, fare in modo che sia lei poi a scegliere autonomamente se proseguire in quella direzione, cercare insieme di tessere relazioni, far sì che quelle relazioni possano proseguire da sole, fino a che sarà possibile senza il mentore. Questo è l’intento.
Vivere queste esperienze relazionali e di condivisione nel proprio luogo di appartenenza significa essere, oltre che attori del proprio giorno, spettatori di micro storie: la signora che si incontra al gruppo ricreativo del paese, che ogni volta descrive un pezzetto del suo passato; oppure l’altra signora che si incontra al corso di ginnastica organizzato dal proprio comune e che si avvicina per fare due chiacchiere. Ecco allora come può diventare importante avere qualcosa da raccontare.
Ed è anche rilevante sentirsi dire “Ci vediamo settimana prossima, ti aspetto!”: magari per alcuni è una cosa di poco conto o a cui si è abituati, per altri invece, e tra questi le persone con disabilità, è una frase ricca di significato.
Le relazioni sociali sono per tutti fonte di energia, aiutano a incontrare con voglia ed entusiasmo la propria quotidianità, e pur essendo a volte faticose, risultano essenziali. Essere conosciuti e RI-conosciuti è un’esperienza che fa sentire parte di qualcosa di più grande.

M. sta frequentando il centro ricreativo del suo comune; ogni venerdì ha appuntamento con l’educatore mentore e insieme si recano presso tale luogo, dove le persone si incontrano e dove il collante è rappresentato da momenti di giochi sociali, risate e chiacchiere. Una sera al termine di questo incontro, prima di salutarsi e riprendere ognuno la via di casa, M. ci ha tenuto a manifestare la positività di questi momenti: “Grazie, grazie, grazie! Mi apri porte che non conoscevo”. E questo vale moltissimo.