Il Progetto di Vita di Simone

Lavoro in ANFFAS ormai da quasi cinque anni, bellissimi, fatti di lavoro con il territorio a livelli differenti per portare avanti la mission dell’Associazione: la realizzazione dei Progetti di Vita per ogni persona con disabilità.
Due anni e mezzo fa Giorgia – nome chiaramente di fantasia – che già conoscevo, è arrivata per condividere il Progetto di Vita del figlio Simone: 16 anni, con un funzionamento tale per cui anni prima l’equipe riabilitativa aveva ritenuto opportuno fosse inserito in un percorso residenziale. I bisogni sanitari erano alti, e non corrispondevano completamente alla vita familiare. Giorgia aveva accettato, effettivamente le fatiche a casa erano molte, a scuola anche, ma non aveva mai rinunciato al suo ruolo di madre, né delegato attraversando la porta della struttura. Simone rientrava infatti a casa regolarmente nel week end e Giorgia aveva costruito delle attività personalizzate ad hoc, idem per le vacanze estive e invernali, per la voglia di condividere il tempo di qualità, che è un lusso per ogni famiglia, ed è possibile anche per le famiglie con persone disabili, quale che sia il loro funzionamento o la loro diagnosi: le amate ferie nei posti conosciuti o in quelli da scoprire, la voglia di stare insieme e di fare esperienze nuove, foto e ricordi da mettere negli album fisici o in quelli della memoria.

Giorgia arriva e mi dice che è necessario il passaggio a un residenziale per adulti; glielo ha suggerito caldamente chi segue Simone da anni, ma lei vuole scegliere il posto migliore per suo figlio, esattamente come ha sempre cercato di scegliergli le attività migliori.
La seguiamo in questo percorso in tre assistenti sociali: del Comune, del servizio specialistico ed io di Anffas. Ci troviamo, cerchiamo di capire le esigenze, creiamo i contatti e accompagniamo i genitori a vedere le strutture e a parlare con i referenti.
Non si può subire una scelta, bisogna prepararsi, ne ha diritto Simone, quanto Giorgia, suo marito Giovanni e anche Stefano, il fratellino, che comunque partecipa a suo modo alla scelta, chiedendo cosa si sta facendo per quel suo fratellone un po’ complicato da gestire, ma a cui è tanto legato.

Due anni di dubbi, di fatiche, di paure, di ripensamenti, con in mezzo il Covid, ma finalmente la scelta è fatta e al compimento dei 18 anni Simone fa il passaggio in una struttura per adulti. Il posto è giusto, la personalizzazione dell’intervento è effettiva. Risponde perfettamente ai bisogni di Simone, rispettoso del suo momentaneo Progetto di Vita, che non è mai definitivo, ma va rimodulato a seconda delle età e dei momenti che le persone attraversano. Simone non viene omologato agli ospiti più anziani, che sono la maggioranza. Ha un piccolo gruppo di coetanei con un funzionamento simile, con cui condividere attività e spazi adeguati alla sua età, con un’equipe formata per accogliere persone che hanno grande necessità di assistenza anche sanitaria e che hanno accolto anche Giorgia, Giovanni e Stefano. Non si spaventano di fronte a un meltdown, sanno come gestirlo e, solo se necessario, all’interno della struttura sono presenti anche figure sanitarie pronte a intervenire.

L. 328/00: la persona al centro

La legge 328/2000 all’art.14 sancisce che “ogni persona con disabilità ha diritto ad avere un proprio progetto personalizzato”. A riconoscerlo non sono le Associazioni di Famigliari, ma un legislatore attento, che ha ascoltato le voci e le lotte di tante persone che hanno vissuto con la disabilità e la conoscono bene, perché la disabilità la capisci a fondo solo se la vivi.
Spesso le leggi sono fredde, distaccate e non personalizzabili; ragionano incasellando e omologando le persone in sezioni e commi. In questo semplice articolo della 328/2000, invece, norma e principio si fondono magicamente e danno davvero la possibilità di esigere per ogni persona con disabilità una vita fatta di qualità e benessere, esattamente come accade per ogni altra persona, che nella propria vita mira a ottenere ciò che è meglio e fa scelte che lo portano a questo obiettivo.

Anche la Convenzione ONU per le Persone con Disabilità, arrivata in Italia qualche anno dopo, declama in ogni sua parte questo principio: il diritto ad avere una vita piena, autodeterminata, in cui è la persona al centro nessun altro, nessun servizio, nessun ente. È l’individuo il protagonista attivo della sua vita, che è sua, unica e irripetibile. È la persona il centro del pensiero e della programmazione, il fulcro dei progetti e per la quale gli interventi vanno pensati e mirati.

È proprio questa visione di centralità della persona che riporto quando faccio le mie chiacchierate con genitori o operatori, che qualcuno chiama formazione, ma per me sono pensieri ad alta voce.
Cinque anni di lavoro su questo principio, in un territorio in cui condividere questa visione è stato possibile, come anche portare ai tavoli programmatori del sistema territoriale il tema del Progetto di Vita. Con un po’ di diffidenza iniziale, con qualche fatica, ma che si sta facendo pian piano largo nella cultura territoriale.

Regole amministrative VS esigenze della persona

Ma qui inizia l’incubo, perché di questo si tratta. Per me la persona è sempre come un diamante: a seconda di dove lo guardi riflette una luce diversa. Per avere la visione globale di questa pietra preziosa hai bisogno di tanti sguardi, di tanti punti di vista; non te ne può bastare solo uno, perché sarebbe riduttivo e ne perderesti l’essenza e la bellezza.
Ogni persona, anche quella con disabilità, deve perciò essere guardata contemporaneamente da più lati: la famiglia, i servizi, l’ente pubblico, le reti informali e tutti coloro che con questa persona interagiscono. Insieme, e solo insieme, si può avere una visione completa e quindi si possono costruire degli interventi davvero rispondenti alle esigenze e alle risorse di ognuna.
La persona, come un diamante, è unica e irripetibile, al pari del suo Progetto di Vita, che non può essere omologato né omologabile.

Ora, dopo tutto il lavoro di tutti nel guardare Simone come un diamante nella sua complessità e aver cercato una situazione in cui ognuno dei suoi bisogni venga preso in carico, ci siamo trovati di fronte a una delibera di Regione Lombardia, la numero 1046/2018, che corrisponde alla struttura residenziale il riconoscimento economico del “vuoto per pieno” solo fino a 50 notti – mettendo nelle condizioni le strutture residenziali di “limitare” di fatto a questo numero i rientri a casa di ogni ospite nell’arco dell’anno – e quasi come a… “premiarle” a tener dentro le persone.
Il “principio” inizia a scontrarsi con la realtà: risorse frammentarie o inesistenti, o da mettere insieme arrivando da mondi diversi – il sociale e il sanitario – e allora si cerca insieme di andare verso una ricomposizione ragionata delle risorse, per rispettare i Progetti di Vita delle persone.
Ci informiamo a livelli differenti, anche l’equipe della struttura è mortificata, e si rende conto che le esigenze di Simone non sono le esigenze di altri ospiti, magari sessantenni senza più famiglia, che non rientrano nemmeno mai a casa, perché magari a casa non hanno nessuno e di quei 50 giorni non se ne fanno davvero nulla.

Simone ha un equilibrio, è provato: nel periodo Covid, in cui i rientri non potevano essere fatti e quindi nemmeno uno di quei 50 giorni poteva essere richiesto, Simone faceva fatica, perché lui ha bisogno di mamma e papà. È alto 1 metro e 90, ma è un ragazzotto che ha ancora bisogno dei suoi genitori. È un cucciolone che ha bisogno del suo tempo di qualità in famiglia. Anche l’equipe ha fatto fatica in quel periodo, e ha verificato che da quando ha potuto tornare a casa nei week end Simone è più tranquillo e la settimana è anche più produttiva. È un equilibrio, è benessere, è qualità della vita.
Il principio che sta nella norma della delibera regionale 1046/2018, però, è che se la persona ha bisogno di stare a casa più di 50 giorni su 365, significa che non ha bisogno di una struttura residenziale.

Molteplici gli interrogativi che sorgono. Quali servizi potrebbero occuparsi di Simone sul territorio se lui tornasse? Servizi funzionanti dalle 9 alle 16 dal lunedì al venerdì, e dalle 16 alle 9 del mattino dopo, avendo due genitori che lavorano e un fratellino in crescita. E se c’è bisogno in un momento di crisi dell’intervento d’urgenza di un medico specialista, chi arriverebbe? Il medico di base? C’è uno specialista sul territorio pronto ad affrontare la situazione?
Come può essere che Simone debba scegliere tra il suo funzionamento, la sua complessità anche sanitaria e la sua famiglia?  Come si può chiedere a Giorgia di essere madre a singhiozzo, o a Giovanni di scegliere se fare le vacanze invernali o quelle estive con suo figlio? Come chiedere a Stefano quale dei week end preferisce durante l’anno stare con suo fratello e con quali attività? Perché Simone non ha diritto a essere figlio e adulto con necessità assistenziali alte?

Cambiare le regole per riposizionare la persona al centro

Giorgia esce dall’ufficio piangendo, e ha ragione. Non può una delibera regionale essere così tranchant; omologare tutte le persone che sono ospiti di una struttura. È illegittima, va contro l’art. 14 della legge 328/2000.
Come può una delibera regionale definire che una struttura è meglio riconosciuta economicamente se non manda a casa i propri “ospiti”? Chiedere alle strutture di NON personalizzare i progetti e di far rientrare in standard economici le vite delle persone?
Il Progetto di Vita non è standardizzabile, altrimenti non sarebbe individuale. Le persone non possono essere omologate a numeri e “vuoti per pieno”.
Non possono due righe in un documento, pretendere che una famiglia accetti di essere famiglia a metà.
A una madre cosiddetta normotipica nessuna legge impone il numero massimo di giorni in cui è autorizzata a vedere il proprio figlio, o il mondo delle madri, soprattutto italiane, si ribellerebbe.
Finché il bisogno di ogni figlio si assolve nello stare in famiglia, ogni figlio ha diritto di starci e ogni genitore ha il dovere di esserci. Perché questo diritto/dovere, fondante peraltro la nostra Costituzione, è negato?

Come operatore credo che basterebbe poco e ho deciso, col permesso di Giorgia di mettere su carta queste riflessioni condivise, per dare risalto a questo tema, per provare a dar voce a tutte le Giorgia e i Giovanni d’Italia, che sono tanti e non unici, ne ho incontrati altri sul mio cammino e la sensazione di non essere ascoltati o capiti li accomuna.
Basta! Bisogna dar voce anche a chi voce non l’ha: Simone ha diritto di essere un adolescente con del tempo di qualità familiare. Basta poco per modificare quel comma della delibera regionale a pag. 58 (al punto 6.11.2 Ulteriori regole di remunerazione) che stabilisce, per gli utenti maggiorenni di unità d’offerta residenziali per disabili (RSD e CSS), che “il limite di assenze remunerabili con oneri a carico del FSR può essere incrementato sino ad un massimo complessivo di 50 giorni su base annua, ove trovi specifiche e articolate motivazioni nell’ambito del Progetto Educativo Individuale”, rettificandolo in: “il limite di assenze remunerabili con oneri a carico del FSR vengono definite a seconda del Progetto Educativo Individuale concordato tra equipe, famiglia e servizio sociale di appartenenza, così come previsto dall’ex art 14 della L. 328/2000”.
Due righe che darebbero alle strutture l’opportunità di progettare davvero il bisogno della persona e non secondo una logica economica. Due righe che darebbero a Giorgia, Giovanni, Simone e Stefano l’opportunità di essere famiglia al 100%.